CAPITOLO 2

203 18 6
                                        

OMAR

Da un'altra parte, quella stessa mattina...

Pii... piii... piiii...

Il suono fastidioso della sveglia che vibrava sul comodino si insinuò prepotentemente nei miei sogni comatosi.

A faccia in giù sul cuscino lasciai che terminasse il tempo per cui l'avevo programmata senza spegnerla.

Non ricordavo nemmeno di averla messa, nè che giorno fosse da tanto che avevo bevuto la sera prima.

La camera era illuminata a giorno ormai, le imposte erano ancora aperte.

I raggi del sole cadevano leggeri sulla mia schiena nuda su cui spiccava tatuata una grossa fenice colorata.

Solo un paio di jeans strappati e scoloriti mi fasciavano le gambe.

I piedi scoperti penzolavano fuori dal materasso, sopra una cassapanca di legno scuro.

A terra, ai lati, due sneaker bianche, gettate a caso che avevano visto giorni migliori.

Il silenzio regnava sovrano. Solo in sottofondo, lontano, il rumore di una strada trafficata e di un nuovo giorno che provava a svegliarsi.

Niente riusciva a trascinarmi fuori da quel torpore rassicurante...

La sveglia suonò di nuovo e come prima non la fermai.

Il suono di un russare improvviso vibrò nella stanza.

Parevo un cadavere a guardarmi da fuori se non fosse stato per quello: un corpo inerme; un lungo tatuaggio fitto di disegni floreali e scritte nere anche sulla spalla sinistra che si arrotolava giù sul bicipite sinistro rilassato e che scendeva fino al polso in linee e tratteggi.

Quel braccio quasi toccava il pavimento; come sfuggito al mio controllo, pendendo a terra attirato dalla gravità

Con la mano lambivo il pavimento.

L'altro braccio era ripiegato vicino al capo dall'altra parte: sul dorso della mano destra un teschio ed una scritta nera: NEVER QUIT, mai mollare. E più sopra un'incisione MUM tra foglie strappate e linee tondeggianti.

Dietro l'orecchio, nascosta, la zampa tatuata del mio adorato cane di quando ero più giovane e il suo nome che non avrei dimenticato.

Al pollice una fascia in acciaio lucido con un'incisione in nero, simile ai divaricatori di buchi che portavo ai lobi.

Sulle dita un piccolo cuore, un pugnale, il simbolo della pace e la lettera V sbiadite.

I capelli scuri corti sui lati con un ciuffo più lungo davanti completavano il tutto; un velo di barba incolta e disordinata sul mento mi dava un'aria trascurata e indisciplinata.

Gli occhi erano rigorosamente chiusi e malconci.

Piccole aree fittamente ricoperte da peli, disposte lungo il margine superiore dell'orbita oculare, rilievi arcuati scuri come i capelli, separavano le palpebre dalla fronte.

Sparsi qua e là sulla pelle del viso segni di lotta.

Solo un lieve alzarsi ed abbassarsi del torace suggeriva insieme al ronfo che esistevo ancora.

Un rivolo di bava mi colava dalla bocca semi aperta.

Una scena raccapricciante.

Il cellulare a terra, vicino ad una bottiglia di whisky vuota squillò più volte e poi segnalò una notifica: un messaggio.

Ancora tu...Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora