1. Shubui

2.9K 69 4
                                    

Boston, dieci anni dopo.

Al primo sguardo
io mica lo sapevo che mi avresti
cambiato l'esistenza.

Becky.

Non mi piacevano i nuovi inizi, mi rendevano nervosa e mi riempivano d'ansia. Odiavo stare in mezzo alla gente, non mi sentivo a mio agio, le persone non mi piacevano. E sì, ero melodrammatica e annaspavo nel mio respiro ogni volta che qualcuno mi toccava o esitava a lasciare troppo lo sguardo su di me, mi infastidivano.

Tutti, li odiavo tutti e basta.

Harvard era il sogno di ogni essere vivente che poteva permetterselo, ma non il mio. Io non volevo essere lì. Ma non potevo deludere le aspettative della famiglia, quindi dovevo farmi andare bene il fatto che ci stavo mettendo piede. A detta di mia madre, Harvard era un college di prestigio che mi avrebbe aperto le porte del futuro ed io dovevo essere superiore a chiunque altro nella mia vita, proprio come lei.

Per farla breve, ero stata obbligata ad andarci. Vivere nell'ombra non mi era permesso.

«Dai sorellina, sono solo quattro anni.»

La voce di Ryan - mio fratello gemello - si insinuò come veleno nelle crepe del mio cervello.

Per lui erano solo quattro anni, per me era l'inferno.

Gli lancia un'occhiataccia e lui alzò le mani in segno d'arresa, mimando divertito la parola scusa con le labbra. Sapeva cosa potevo diventare quando ero nervosa, e non doveva starmi tra i piedi. Nessuno doveva farlo. Ma lui doveva per forza punzecchiarmi, gustandosi il fatto che mi dava sui nervi perché come mi ripeteva sempre, "farlo era divertente".

Al contrario mio, Ryan era euforico. Altro che gemelli, non ci somigliavamo per niente. Aspettava quel momento da tutta la vita, ed io glielo stavo palesemente rovinando, quindi era meglio se si fosse allontanato da me il prima possibile.

«Va via.» Lo incitai cacciandolo con un gesto delle mani, sventolandole per aria. «Va a cercare il tuo amico.»

Feci un passo indietro e mi calai le maniche del cardigan nero sulle mani, sentendo il freddo penetrare sotto la stoffa quando alzai lo sguardo verso la miriade di studenti che accavallavano l'entrata principale. Erano tutti così piccoli a confronto a quelle quattro colonne che inarcavano le porte del mio inferno, ed erano decisamente troppi. Troppa gente. Troppi occhi. Troppe bocche. Troppe braccia.

Troppo tutto.

Dovevo solo respirare e mantenere la distanza dalla folla, era facile, no?

No, per niente.

Ispirai a pieni polmoni e poi lasciai andare l'aria, così per quattro volte. Bene, mi era appena scoppiato un gran mal di testa e le orecchie mi fischiavano. Al diavolo i maledetti metodi della mia psicoterapeuta, dovevo trovare qualcun altro che fosse in grado di gestire le mie paranoie.

Ryan si guardò intorno ed individuò il suo migliore amico, che a sua volta alzò una mano verso di noi a mo' di saluto. Lo ignorai, come giusto che sia. Non ero sempre così antipatica giuro, come ho già spiegato erano solo gli inizi a darmi sui nervi e a rendermi permalosa.

Mi sarebbero bastati solo un paio di giorni e l'abitudine di una nuova vita, poi mi sarei rilassata e tutto sarebbe andato come doveva andare.

«Te la caverai?» Mi chiese, con una leggera nota di preoccupazione nella voce.

Oh no, ti prego non farlo. Non doveva fare il protettivo, ossessionato e geloso, sapevo cavarmela da sola.

«Sparisci.» Sbottai, alzando gli occhi al cielo. Non avevo bisogno di lui, non avevo bisogno di nessuno.

SonderDove le storie prendono vita. Scoprilo ora