2. Kintsugi

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L'anima soffre,
il corpo paga.

Jace.

Feci scivolare gli occhi sulla sua figura non appena varcò l'entrata che dava sul cortile. La sua pelle era pallida, quasi traslucida, e sembrava emanare una luce propria. I suoi occhi, profondi e blu come l'oceano, catturavano la mia attenzione come se fossi uno squalo bisognoso di cercare l'abisso. Anche quel giorno, per il terzo giorno di fila, il suo colore era il nero. Aveva addosso un dolcevita ed i pantaloni aderenti le segnavano le curve delle sue gambe snelle, sembravano essere disegnate da Dio.

Nero, e ancora nero.

Sì, il nero era il mio colore preferito.

L'immaginai nuda, con addosso del pizzo ed i capelli mossi che le ricadevano dietro le spalle, e nei miei pantaloni esplode l'eccitazione, tanto da sentire il cavallo dei miei jeans stringersi e darmi fastidio.

Ci scambiammo un breve sguardo, e in quel momento sentii un brivido corrermi lungo la schiena. Un brivido che avevo già provato nella mia esistenza, un brivido che non avrei mai dimenticato, e ormai ero grande abbastanza da capire cosa significasse. Solo un misero ed intenso attimo, visto che lei distolse subito la sua attenzione da me. Sapeva che la tenevo d'occhio, che la fissavo, che respiravo la sua stessa aria. Sapeva che in un modo o nell'altro sarebbe stata mia.

Stava parlando con una ragazza, una biondina che frequentava la lezione del professore Landon, una tipa tutta rose e fiori. E sorrideva con lei, forse un po' forzata.

Non le piaceva la gente. Lo vedevo nei suoi occhi, dalle distanze che manteneva, da come tendeva le braccia tese in avanti e nascondeva le mani sotto le maniche quando camminava nei corridoi, evitava di parlare, si sedeva dove nessuno potesse notarla e lanciava occhiate fugaci quando qualcuno attirava la sua attenzione. Preferiva la solitudine, si sentiva a suo agio lontano dagli altri, disprezzava la gente, le faceva schifo la folla.

E conoscevo quella sensazione, un'anima simile alla mia, ma ognuno con il suo dolore. Il dolore che le scorreva sul viso, che le divorava l'esistenza, che la spaventava come se il mondo volesse mangiarla.

«Jace?» La voce di Cora mi rimbombò nelle orecchie. «Jace, hai sentito quello che ho detto?»

Mi strinse una mano sulla spalla raggrinzando la pelle del mio giubbotto con le dita e tirandosi leggermente in avanti, distraendomi dal mio obiettivo.

«Lascia perdere.» Intervenne Logan, affianco a me, sbuffando via il fumo dalla bocca. «Jace ha una nuova ossessione.»

Strinsi il mozzicone di sigaretta che avevo fra le labbra tra il pollice e l'indice e feci l'ultimo tiro, prima di scaraventarlo per terra. Logan era nella mia testa, conosceva ogni mia mossa, ogni mio sguardo. Lui era la mia persona. Sapeva senza nemmeno averne parlato che avevo trovato carne per i miei denti, e che non l'avrei mollata se non prima avrei finito di divorarla e avrei leccato il sangue fino a non lasciare più niente. Nessuno doveva fiutarla, solo io.

Inclinai leggermente il capo verso Cora e la fissai. I suoi lunghi capelli castani erano raccolti in una coda che cadeva in avanti sulla spalla destra, mettendo in risalto gli occhi verdi e lucenti.

«So quello che devo fare.» Le confermai, facendole capire che avevo sentito tutto anche se ero distratto. «Ti ricordo che sono io a scrivere le regole.»

Lei alzò gli occhi al cielo e distolse lo sguardo.

Quando mi voltai per tornare sulla mia preda, con mio grande fastidio notai che non c'era più.

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