46. Cafune

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Promettimi che mi ricorderai come un momento bello della tua vita.

Jace.

Le ultime ventiquattro ore si erano trascinate come un'eternità nella mia esistenza, e ogni secondo pesava su di me come un macigno insopportabile. Il tempo sembrava dilatarsi in una lenta agonia, lasciandomi immerso in un peso che avvertivo in ogni fibra del mio essere mentre pregavo come non avevo mai fatto in vita mia.

Nella penombra della stanza causata dal cielo cupo e grigio fuori, sollevai le spalle sulla sedia stirando i muscoli doloranti, sfiorandomi il viso con le mani in un gesto di sconforto e liberando un sospiro di stanchezza. Avevo trascorso la notte al suo fianco, osservandola con attenzione, stringendole la mano e implorandola di risvegliarsi. Tuttavia, alle prime luci dell'alba, mi ero addormentato inconsapevolmente.

Mi sollevai in piedi e mi guardai intorno per un istante, prima di posare di nuovo lo sguardo su di lei. Era come se fossi stretto in una morsa, incapace di smettere di guardarla.

«Svegliati, honey. É abbastanza adesso, torna da me.» Sussurrai per l'ennesima volta con le lacrime pungenti in gola.

La sera precedente, i medici avevano rassicurato sulla situazione, affermando che il pericolo era stato superato e che si sarebbe potuta svegliata da un momento all'altro. Tuttavia, il susseguirsi delle ore sembrava eterno, poiché quel momento che stavo attendendo con ansia non si materializzava mai.

Con forza, affondai i pugni nel materasso spingendomi vicino al suo viso, trattenendo il respiro per un tempo interminabile, sperando in un miracolo. Ma, la consapevolezza che fosse tutto inutile mi fece ritirare, stringendo i denti, mentre mi resi conto di quanto avessi bisogno di un caffè.

Mi avvicinai alla porta e stavo per lasciare la stanza quando udii le voci di Ryan e di una donna provenire dal corridoio. Con cautela, aprendo leggermente la porta, rimasi immobile, osservandoli attentamente.

«Tu sei pazza.» Ryan rilasciò una risata isterica, scorrendosi una mano sul volto e tirandosi indietro.

Nemmeno lui si era mosso da lì, ma la permanenza insieme nella stanza di Becky dopo quella discussione era diventata insostenibile. Di conseguenza, lui si era limitato a trascorrere il tempo nel corridoio, capendo che non sarei uscito dalla camera nemmeno sotto tortura.

«Adesso mi sono stufata.» Sua madre ringhiò, osservandolo con rabbia.

Non capivo di cosa stessero parlando, ma quella donna...

Gesù, la sola visione di quella donna mi faceva rabbrividire e, al solo pensiero di ciò che aveva fatto subire a Becky, l'unica cosa che avrei voluto fare era ucciderla lentamente facendole passare le pene dell'inferno.

«Perché cazzo sei qui?» Tuonò ancora lui. «Non serve che tu faccia finta che ti importi.»

Un groviglio di rabbia si accumulò nello stomaco e per qualche secondo la mia testa corse da mia madre. Nonostante tutta quella storia, se c'era una cosa che non potevo rimproverarle era il fatto che si era presa cura di me; senza di lei, molte volte, non ce l'avrei fatta ad andare avanti.

La sua risata echeggiò mentre si passava una mano tra i capelli. Poi, con un repentino movimento, si voltò verso di me, come se avesse improvvisamente preso coscienza della mia presenza, facendo lentamente svanire il sorriso.

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