42. Besa

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Non lo meritavi.

Jace.

Non riuscivo a percepire nulla, solo il freddo pungente e penetrante che mi stava incollato alle ossa. Ero avvolto dal buio, come se fossi stato catapultato in un mondo parallelo che non mi apparteneva, dove ogni forma di percezione era stata sottratta. Iniziai inconsciamente ad esplorare le tenebre, muovendomi con cautela e tattilità, cercando di orientarmi nel nulla.

Immerso nell'oscurità, mi sentivo come se le tenebre avessero inghiottito ogni punto di riferimento. Il buio era un labirinto senza vie d'uscita, e ogni passo incerto faceva crescere la sensazione di smarrimento dentro di me, come se il mondo intorno si fosse dissolto in un vuoto senza confini.

Poi, dopo un tempo che sembrò infinito, finalmente iniziai a percepire una sorta di energia sottile che mi avvolse, come un sussurro all'orecchio o un leggero soffio sulla pelle.

Tuttavia, quando mi resi conto di cosa si trattava cercai in ogni modo di soffocarla; una fredda corrente di paura serpeggiava dentro di me, avvolgendomi come un'ombra omicida. Il cuore batteva veloce, il respiro diventava affannoso, mentre l'incertezza del buio alimentava un timore crescente, un'ansia tangibile che mi serrava il petto cercando di uccidermi.

Sbarrai gli occhi, la vista offuscata e i polmoni si contrassero. Mi svegliai in un letto di ospedale, la stanza avvolta nella penombra dell'alba intorno a me gradualmente prese forma. Sentivo la debolezza pesante nel mio corpo, e un pulsante male al braccio mi fece stringere i denti per il dolore, ricordandomi il colpo di pistola. Mi persi con lo sguardo nella stanza ospedaliera per qualche istante, mi sentivo in una miscela di confusione e vuoto, mentre cercavo di fare chiarezza sulla memoria annebbiata da quello che era successo e che mi aveva trascinato in quel posto.

«Jace.» Sentii il soffio della sua voce debole arrivarmi confuso alle orecchie e mi voltai di scatto.

Lei era lì.

Sedeva al mio fianco, proprio alla destra, vicino alla finestra, il viso solcato da un'espressione preoccupata.

Era lì, era rimasta con me.

Le mie palpebre si schiusero e aprirono più volte rapidamente, un colpo di tosse irritò la mia gola e, come se avesse intuito i miei pensieri, Becky mi porse prontamente un bicchiere d'acqua.

«Cazzo.» Stringendo gli occhi, imprecai tra i denti stretti, mentre il dolore al braccio si faceva sempre più acuto.

«Vado a chiamare un medico.» Posò il bicchiere che gli avevo ridato sul comodino e si levò di scatto, ma io fui più celere, afferrandola per un polso e bloccandola.

«No, sto bene.» Alzai leggermente la voce. «Ho solo bisogno di parlarti.»

La vidi deglutire con difficoltà e si sedette di nuovo lentamente come se fosse incerta, la penombra della stanza illuminò a metà il suo viso stanco e privo di sonno, su cui si leggeva tutto il dolore che le avevo inflitto.

Mi sentii un nodo in gola mentre la osservavo. Ero consapevole di quanto le mie azioni l'avessero ferita, e il rimorso mi stava divorando dall'interno. Volevo dirle quanto mi dispiacesse, quanto mi pentissi di tutto ciò che avevo fatto. Ma le parole sembravano inadeguate, incapaci di esprimere appieno il mio profondo rimorso. Non sarebbe servito a nulla.

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