4 "TU ME FAJE ASCÌ PAZZ", Liberato

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5 anni fa
Siria

Era un altro pesante giorno di scuola a Materdei, e il caldo di fine maggio mi soffocava.

L'aria era densa, quasi irrespirabile, e il sole sembrava incollarsi sulla pelle. Dopo la volta in cui Ciro aveva ordinato ai suoi amici di lasciarmi andare, avevo smesso di temere di fare lo stesso tragitto verso casa. Quella paura costante si era affievolita, anche se in fondo non mi fidavo completamente.

Uscita dalla scuola, l'ho visto subito. Ciro, appoggiato al suo Liberty, una sigaretta tra le labbra, sembrava perfettamente a suo agio, come se quel posto fosse suo. Le ragazze lo ammiravano da lontano, sussurrando tra loro.

Indossava la solita tuta e scarpe da ginnastica, il crocifisso d'oro che brillava sul petto e i capelli tirati indietro con il gel, con quella riga a lato che era ormai il suo marchio. Era impossibile non notarlo.

Mi sono avvicinata, il cuore che batteva più forte, cercando di non far trasparire la sorpresa nel vederlo lì.

«Che ci fai qua?» gli avevo chiesto, mantenendo la voce il più tranquilla possibile.

Lui mi aveva guardata con quel mezzo sorriso sfacciato e, con la solita lentezza, aveva tirato un altro tiro di sigaretta. Mi fissava come se stesse giocando una partita di cui conosceva già il risultato.

«Song vnut p te,» aveva detto con quella sua voce calma e sicura. «T port a cas.»

Mi ero fermata un attimo, sollevando un sopracciglio. «Ah, e mo faij o tassist?» avevo scherzato, cercando di mantenere un tono leggero.

Lui aveva riso, scuotendo appena la testa. Era una risata breve, ma vera. Non si offendeva mai quando lo prendevo in giro, anzi, sembrava quasi apprezzarlo.

Senza dire altro, mi aveva fatto cenno di salire dietro di lui. E io, un po' incredula, ci ero salita. Mentre il Liberty si metteva in moto, il vento aveva iniziato a scompigliarmi i capelli, e per un momento mi ero sentita leggera, come se tutto il peso della giornata fosse svanito.

Ma invece di portarmi subito a casa, Ciro aveva preso una strada diversa. Avevamo svoltato in direzione delle 13 discese, una zona da cui si poteva vedere tutta Napoli dall'alto. Quando ci siamo fermati, il panorama davanti a noi era mozzafiato: la città si stendeva sotto di noi, con il mare che brillava all'orizzonte e il Vesuvio che dominava lo sfondo.

Arrivati alle 13 discese, Ciro aveva spento il motore e si era fermato per un attimo a guardare il panorama. Il vento leggero ci accarezzava il viso, e il rumore del traffico lontano si perdeva nell'aria. I capelli leggermente scompigliati, e avevo respirato a fondo. Davanti a noi, Napoli si stendeva immensa, e il mare scintillava sotto i raggi del sole pomeridiano.

Ciro si era acceso un'altra sigaretta, guardando verso l'orizzonte. «Di sera è molto più bello qua, ossaije?» aveva detto con quel suo tono calmo e sicuro. «Tutta Napoli illuminata, 'nu spettacl.» Aveva fatto un tiro profondo e poi aveva espirato lentamente, come se volesse sottolineare la bellezza di quel momento.

Nonostante vivessi a Napoli da sempre, nessuno mi aveva mai portato lì. Guardavo quel panorama come se lo vedessi per la prima volta. Lì, su quella collina, mi sentivo lontana da tutto, come se il caos della città fosse solo un ricordo distante. Era uno di quei posti di cui avevo sempre sentito parlare, ma non ci ero mai stata.

E c'era un altro pensiero che mi attraversava la mente: avevo sognato mille volte di fare quelle 13 discese sul motorino del mio ragazzo. Nella mia immaginazione era sempre stata una scena perfetta, quasi da film, con il vento che ci scompigliava i capelli e io che mi stringevo a lui. E adesso era reale.

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