Tra ombre e urla

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ELRIS

[presente]

Il freddo della cella mi avvolgeva come un mantello pesante, e il silenzio opprimente era interrotto solo dal battito del mio cuore. La luce fioca filtrava attraverso una grata arrugginita, gettando ombre danzanti sulle pareti di cemento. Di fronte a me, un uomo era legato a una sedia di legno, i polsi e le caviglie serrati in manette che lo trattenevano come una preda in trappola. Il suo respiro affannoso riempiva l'aria, mentre cercava di mantenere un'apparenza di calma.

Non era una coincidenza che ogni tortura che infliggevo avvenisse in una cella; era una scelta precisa, un atto carico di significato. Ogni volta che chiudevo quella porta dietro di me, mi ricordavo di ciò che avevo subito, del buio che avevo affrontato e di come fossi riuscita a uscirne. Ma, soprattutto, era un modo per costringere gli altri a rivivere il mio stesso passato.

Desideravo che ogni grido di dolore, ogni lacrima versata, risuonasse come un eco delle mie sofferenze, un richiamo potente che ricordasse loro che la debolezza non era un'opzione. Volevo che comprendessero fino in fondo il tormento che avevo sopportato, per farli sentire intrappolati nella mia stessa tormentata esistenza. Era una vendetta che si nutriva di giustizia, una ripetizione di cicli dolorosi che avrei controllato fino all'ultimo respiro

Osservai il volto dell'uomo, i lineamenti tesi, gli occhi che cercavano di sfuggire al mio sguardo. Era un segno di paura, e questo mi dava una strana soddisfazione. "Sei stato un vero problema per noi," dissi, avvicinandomi lentamente, le parole scivolavano dalle mie labbra come un veleno sottile. "Ma ora, finalmente, sei solo una scocciatura da eliminare."

Con un gesto deciso, afferrai uno strumento di metallo: una pinza, lucida e affilata, che rifletteva la debole luce della stanza. Il suo respiro si fece più affannoso, il corpo teso, mentre mi avvicinavo. "Dove sono i soldi ?" chiesi, inclinando la testa con un sorriso che sapeva di malevolenza.

L'uomo cercò di mantenere il controllo, le labbra serrate in un ghigno di sfida. "Non te lo dirò mai," ringhiò, la voce tremante ma determinata. Il suo coraggio mi infastidì, ma mi accesi di una voglia di spezzarlo.

"Non siamo qui per la gentilezza," dissi, stringendo la pinza con fermezza, avvicinandola alla sua pelle. "Siamo qui per fare il lavoro che hai lasciato incompiuto." E con un movimento deciso, afferrai una ciocca dei suoi capelli e lo forzai a sollevare il mento. "Preparati."

Il metallo freddo scivolò lungo il suo braccio, e in quel momento, il suo respiro si fermò. Quando la pinza affondò nella carne, un grido straziante riempì la stanza. Era una melodia dolce, la prova del mio potere. Le sue lacrime scorrevano, ma dentro di me, sentivo solo un profondo senso di giustizia. Ogni urlo era un passo verso la verità che avevo cercato per così tanto tempo.

"Ancora non hai capito," sussurrai, il sorriso che si allargava sul mio volto. "Ogni segno che lascerò su di te sarà un promemoria del tuo fallimento." E mentre continuavo a infliggere dolore, il mio cuore si riempiva di una soddisfazione macabra.

Osservai il suo volto trasformarsi, l'orgoglio che cedeva lentamente al terrore. Ma per me, ogni colpo inflitto era una rivincita, una celebrazione della mia forza. Questo non era solo un lavoro; era un atto di liberazione. Ogni ferita che infliggevo era un messaggio: chiunque si fosse opposto a me avrebbe subito le conseguenze.

"Facciamo un gioco, ti va?" chiesi con una voce che cercava di sembrare innocente, allontanandomi da lui. La verità era che stava diventando troppo noioso, e io odiavo la noia più di ogni altra cosa.

A quelle parole, il suo viso, già contorto dal dolore, si contrasse in un'espressione di perplessità. I suoi occhi, pieni di terrore, sembravano cercare di capire se stavo davvero scherzando o se facessi sul serio.

"Io ti farò un indovinello," continuai, lasciando che il mio sorriso si allargasse, mentre afferravo un pezzo di carta sgualcito dal pavimento. "Se lo indovini, ti lascerò andare. Altrimenti... beh, ti ucciderò."

La mia voce era melodiosa, come quella di una bambina che propone un gioco innocente, ma il contrasto con la brutalità della situazione creava un'atmosfera tesa e carica di suspense.

"Sei pronto?" Sospirai, la mia mente brulicava di anticipazione. "Ecco il primo indizio: sono qualcosa che non puoi vedere, ma può piegare la tua volontà e spezzare il tuo spirito. Cos'è?"

Osservai attentamente la sua reazione. In quell'istante, il panico si mescolò a un barlume di speranza; la consapevolezza che, per la prima volta da quando era entrato nella mia cella, aveva una possibilità di salvarsi, anche se il prezzo da pagare era la sua stessa vita.

Mi avvicinai, accovacciandomi accanto a lui, il mio volto a pochi centimetri dal suo. "Non c'è bisogno di avere paura. È solo un gioco," sussurrai, la mia voce morbida ma con un sottotono di minaccia. "Dai, rispondi! Se hai qualche speranza di uscire da qui, devi usare la tua testa."

"Ricorda," dissi, alzando il tono, "non è solo una questione di indovinelli. È una questione di vita o di morte. E il tempo stringe."

In quel momento, la cella si riempì di una tensione palpabile, mentre il mio cuore batteva forte nel petto, pronto a godere del dramma che si stava per svolgere. La sua vita era appesa a un filo sottile, e io ero l'unica a poterlo spezzare o preservare. La scelta era sua, ma la mia ombra rimaneva ineluttabile.

Osservai il suo viso mentre cercava di trovare una risposta, il suo respiro diventava sempre più affannoso. "La tristezza ..." mormorò, ma non sembrava convinto.

"Non è corretto," dissi con un tono di delusione, ma in realtà ero elettrizzata dalla sua frustrazione. "Prova ancora. Ricorda, hai solo un'altra possibilità prima che il gioco prenda una piega decisamente... fatale."

Il suo sguardo si spostò nervosamente, cercando nella sua mente una risposta. La sua vulnerabilità mi alimentava, e ogni momento di esitazione da parte sua era un piccolo trionfo per me.

"Se non lo sai, posso sempre darti un indizio," dissi, lasciando che una smorfia sadica si disegnasse sulle mie labbra. "È qualcosa che tutti provano, anche i più forti. Può paralizzare gli eroi e trasformare i più coraggiosi in ombre."

Le sue labbra tremavano mentre cercava di mantenere la calma. Lo sapevo, era intrappolato in una rete di paure e ansie. Volevo che sentisse il peso della sua impotenza, e che capisse che il suo destino era completamente nelle mie mani.

"Ti darò cinque secondi," annunciai, contando a bassa voce. "Cinque... quattro..." la mia voce risuonava come un tamburo di guerra. "Tre... due..."

"Ragione?" provò a indovinare, ma il suo sguardo non tradiva sicurezza. La frustrazione si stava trasformando in disperazione.

"Mi dispiace, ma non è corretto. La risposta era la paura," dissi, lasciando che il mio tono si facesse severo. "E ora, come promesso, il gioco deve continuare."

Con un movimento fluido, afferrai la pinza e la feci brillare alla luce fioca. "Mi dispiace, ma non possiamo lasciare che tu scappi così facilmente. Non senza aver appreso una lezione."

"Non preoccuparti," sussurrai, avvicinandomi. "Il dolore non sarà infinito. Ma voglio che tu capisca qualcosa: nessuno sfugge alle conseguenze delle proprie azioni. Ogni tormento che subirai non sarà solo per la tua ignoranza, ma anche per la mia gioia. E io non sono mai stata così felice."

Le sue palpebre tremavano, e io lo osservavo, affascinata dalla fragilità umana. Ogni momento di debolezza in lui era un trionfo per me, e il pensiero di infliggere ulteriore sofferenza alimentava la mia determinazione.

𝕯𝖆𝖓𝖌𝖊𝖗𝖔𝖚𝖘 𝖌𝖆𝖒𝖊𝖘Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora