Capitolo 48

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Hinata pov:

Mentre stavo lì, con lo sguardo fisso sul mio cellulare, il bus finalmente arrivò, fermandosi con un leggero rumore e le porte che si aprirono davanti a me. Salii a bordo e notai subito che non c'era nessuno. Un senso di sollievo mi attraversò, pensando di poter trovare un posto tranquillo per il viaggio.

Scelsi un sedile abbastanza in fondo, accanto al finestrino, pronto a godermi il panorama mentre ci allontanavamo dalla fermata. Ma non appena mi sistemai, un uomo di circa cinquant'anni salì sul bus. Era di media altezza, con una corporatura robusta e qualche chilo di troppo. I suoi capelli erano grigi e scompigliati, con una barba trascurata che gli incorniciava il viso. Indossava una giacca nera un po' stropicciata e dei pantaloni che sembravano un po' troppo stretti per lui. Si sedette accanto a me, occupando il posto con un sospiro pesante, mentre il suo odore, misto a alcool e tabacco, si diffondeva nell'aria.

Con un certo fastidio, mi spostai leggermente più verso il finestrino, cercando di ignorarlo mentre il bus partiva.

Mentre il bus si muoveva lungo la strada, sentii lo sguardo dell'uomo
posarsi su di me. Mi fissava intensamente, come se cercasse di decifrare ogni pensiero che avessi in mente. Provai a ignorarlo, a concentrarmi sul panorama che scorreva fuori dal finestrino, ma la sua presenza era troppo invadente.

Dopo un po', sentii un leggero peso sulla mia coscia: l'uomo mi aveva messo una mano sopra. La sensazione di disgusto mi colpì come un fulmine.

Feci un respiro profondo, cercando di mantenere la calma, ma il mio cuore iniziò a battere più forte. Non capivo cosa stesse facendo, e un misto di fastidio e paura si fece strada dentro di me.
Cercai di allontanarmi, ma lui non sembrava intenzionato a ritirare la mano, fissandomi ancora con quegli occhi che sembravano privi di scrupoli. Una parte di me desiderava alzarmi e cambiare posto, ma un'altra parte rimaneva paralizzata dalla sorpresa e dall'imbarazzo.

Il mio respiro si fece rapido e affannoso, mentre sentivo un peso crescente nel petto. Gli occhi cominciavano a pizzicarmi, e abbassai lo sguardo, cercando di nascondere il terrore che mi invase. Ero davvero molto, molto spaventato. Sentivo le mani tremare lievemente, e nella mia mente si fece strada il pensiero di scendere, di trovare un modo per allontanarmi. Ma non potevo farlo: ero bloccato al finestrino, e per uscire sarei dovuto passare proprio davanti a lui.

L'uomo, senza ritrarre la mano, iniziò a parlare, la sua voce bassa e quasi beffarda. "Come ti chiami?" Mi chiese, fissandomi con un'espressione imperscrutabile. Poi, con una pausa che sembrava carica di intenzione, aggiunse: "Quanti anni hai?"

Quelle domande risuonarono nella mia testa come un campanello d'allarme, rendendo ancora più pressante il desiderio di scappare.

Mi irrigidii completamente mentre sentii la sua mano scivolare in una lenta carezza sulla mia coscia. La sua voce si fece quasi dolce, strisciante, come se volesse rassicurarmi, ma invece aumentava solo il mio disagio. "Puoi dirmi tutto ciò che vuoi, sai? Non devi avere paura..." Sussurrò, e il mio stomaco si contrasse dolorosamente, come se stessi per essere risucchiato in un vortice.

Rimasi immobile, cercando di mantenere la calma, ma la paura mi paralizzava.

Mentre il signore si chinava leggermente verso di me, vidi la sua mano alzarsi e avvicinarsi al mio viso. "Sei davvero bellissimo..." Mormorò, le parole strisciavano nella mia mente, facendomi scattare una fitta di paura ancora più forte.

"Vorresti venire a casa mia? Possiamo fare ciò che vuoi tu..." Si rivolse ancora una volta a me, il senso di disgusto non riusciva ad abbandonarmi.

L'autobus si fermò di colpo, e la porta si aprì per far salire un ragazzo. Era alto e massiccio, probabilmente uno studente universitario, con capelli castani leggermente mossi e una giacca sportiva che lasciava intravedere delle spalle larghe e robuste. Gli occhi, di un colore chiaro e attento.

Il ragazzo si fermò per un attimo all'ingresso del bus, osservando l'interno quasi vuoto. I suoi occhi si posarono subito su di noi, gli unici presenti: io, con le lacrime agli occhi e visibilmente spaventato, e quel signore che mi stava ancora vicino. La sua espressione si fece immediatamente più attenta e concentrata, quasi sospettosa, come se avesse intuito la situazione con un solo sguardo.

Il ragazzo rimase in piedi di fronte a noi, sostenendosi con una mano al palo mentre l'autobus riprendeva a muoversi. Mi guardò intensamente, notando le lacrime che scivolavano silenziose lungo le mie guance. Con un tono di voce pacato, ma preoccupato, chiese: "Hey, perché stai piangendo?"

Provai ad aprire bocca, ma il nodo in gola mi bloccava. Prima che potessi dire una parola, sentii la mano del signore stringersi con forza sulla mia coscia, un gesto che, più che confortante, era un chiaro avvertimento. Mi irrigidii, mentre lui si affrettava a rispondere al mio posto: "Oh, è solo il mio nipotino. È caduto prima di salire sul bus e si è fatto male, per questo è così scosso."

Lo disse con una calma inquietante, come se non avesse fatto nulla di sbagliato, come se quella bugia fosse la cosa più naturale del mondo.

In quel momento, alzai lo sguardo verso il ragazzo di fronte a me, cercando un'ondata di salvezza. I suoi occhi erano pieni di preoccupazione e confusione, in quel breve istante sentii un filo di speranza. Con un respiro tremante, feci un cenno impercettibile con la testa, scuotendola piano, come a dire che nulla di ciò che quell'uomo aveva detto era vero.

Il ragazzo, notando il mio gesto, mi guardò più intensamente, come se cercasse di capire fino in fondo quello che stava succedendo.

Il ragazzo non distolse lo sguardo dal signore e, con voce ferma, disse: "Senti, togli le mani da lui e non lo toccarlo più." C'era una calma glaciale nelle sue parole, una determinazione che lasciava poco spazio alle obiezioni.

Il signore fece un sorrisetto teso e ribatté, quasi con fastidio: "Ma cosa dice? È mio nipote. Non può dirmi cosa fare." Le sue dita erano ancora strette attorno alla mia coscia, come per affermare il suo controllo su di me.

Con un respiro spezzato, cercai di calmarmi, anche se il cuore mi martellava nel petto e le mani tremavano impercettibilmente. Alzai lo sguardo verso il ragazzo, trovando in quegli occhi chiari un senso di sicurezza che mi mancava da quando ero salito su quell'autobus. Con un filo di voce, quasi un sussurro, dissi: "Devo... scendere." Era come se il semplice dire quelle parole mi facesse tornare a respirare.

Il signore si affrettò ad assecondarmi, aggiungendo con un tono che provava a sembrare premuroso: "Sì, dobbiamo scendere anche noi." Il suo tono forzato mi fece stringere i denti, ma almeno si alzò, lasciando finalmente libero il passaggio.

Con le gambe che ancora mi tradivano, feci un passo verso il corridoio. Mentre passavo accanto al ragazzo, mi piegai leggermente in avanti, mormorando un "Grazie." che forse riuscì a sentire solo lui. La mia voce era così bassa e instabile, ma anche in quel caos interno, quelle parole erano sincere, come un'ancora che cercavo di aggrapparmi.

Avanzai verso le porte, sentendo l'autobus rallentare per fermarsi. Guardai un attimo l'autista, quasi sperando che sapesse tutto senza bisogno di spiegare. Le porte si aprirono con un sibilo, e appena il mio piede toccò il marciapiede, un'ondata di aria fresca mi travolse, facendomi sentire un po' più leggero. Ma prima di andarmene del tutto, mi voltai un'ultima volta.

Osservai il ragazzo, che, con una calma disarmante, continuava a intrattenere il signore, parlando con tranquillità, come se volesse trattenerlo ancora un po'. Con un ultimo passo deciso, mi allontanai dall'autobus, lasciandomi finalmente alle spalle quell'uomo.

I need you.  //Kagehina//Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora