sette

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Io e Giulio abitiamo in un appartamento in centro e non è necessario che prenda l'auto per arrivare in studio. E' sufficiente fare qualche centinaio di metri a piedi. Naturalmente, con le scarpe nuove, il tratto di strada è più impegnativo ma sono abituata a soffrire per cose del genere.

Intorno alle nove le vie del centro di Como erano già piuttosto animate. C'era gente che camminava freneticamente, altri che passeggiavano con calma. La maggior parte dei negozi erano chiusi ma questo non impediva ai piccoli furgoni di violare la zona pedonale per raggiungere il posto di scarico merce.

Entrai al Modi's bar a bere un caffè.

«Ciao Giada» mi salutò Andrea, mentre svuotava la cialda di caffè con due colpi secchi sulla barra del cassetto dei rifiuti.

«Ciao» salutai. Rimasi per un attimo a guardare le sue spaventose occhiaie.

Andrea era un giovane barista, forse della stessa età di mio figlio e non osavo immaginare cos'avesse combinato la sera precedente. Sapevo che il Mody's bar, la sera, era uno dei locali più in voga in quel periodo; almeno per quanto riguardava gli aperitivi. Si riempiva di ragazzi che si scolavano litri di alcol, ignari di quanto gli avrebbe fatto male.

Mentre sorseggiavo il caffè guardando fuori dalla vetrina pensai a Michele. Ero sicura che lui si comportasse diversamente dagli altri. Non era di certo un ragazzo così vuoto da passare le serate a ubriacarsi. Improvvisamente mi investì un'ondata di tristezza: la verità era che non potevo essere certa di niente riguardo la vita di mio figlio. Potevo solo sperare che si comportasse bene, anche se, per certi aspetti, Milano è una città notevolmente più pericolosa di Como.

Soprattutto per lo sballo.

Potevo solo confidare nell'intelligenza di Michele e all'educazione che, insieme a Giulio, avevamo cercato di insenargli.

Quando uscii dal bar, dopo aver salutato Andrea, non volevo fare nient'altro che sentire la voce di mio figlio.

Non so tu come faccia a gestire il rapporto coi tuoi figli. A me infastidisce sentirmi una madre troppo apprensiva. Però erano quasi ventiquattr'ore che non sentivo la sua voce.

Presi il cellulare e feci il numero di Michele.

«Mamma?» fece lui, insofferente.

«Ciao tesoro. Come stai?»

«Bene mamma. Come vuoi che stia? Sono imbottigliato nel traffico e sono in ritardo. In più mi aspetta una giornata pesante».

«Forza e coraggio Michi».

«Sì mamma».

«Ieri com'è andata? Hai passato un bel pomeriggio?» chiesi nella speranza di prolungare la conversazione.

«Niente di speciale. Le solite cose. Mamma scusa ma ci sono i vigili. Devo riattaccare. Ti saluto. Un bacio».

«Un bacio amore. Buona giornata e stai attento». Ma nel dire quelle parole mi accorsi che aveva già riattaccato il telefono. Era sempre di fretta e sempre così schivo e di poche parole che, quasi, ci restavo male ogni volta che lo sentivo. Sperai che stesse bene e non facesse cavolate. In fondo, non mancava poi molto al week-end. Una settimana scorre via velocemente. Per domenica gli avrei preparato un pranzetto con i fiocchi. Ormai, come capita alla maggior parte di noi mamme, non ci resta che prenderli per la gola.

Tra un pensiero e l'altro giunsi allo studio. Inserii la chiave. Digitai il codice di sicurezza e attesi che si alzasse la saracinesca.

Iniziai di nuovo a pensare a Cadina. Decisi che avrei rimandato tutto il resto per un paio d'ore. Ero troppo curiosa e volevo studiare, con un po' di calma, quello strano oggetto che avrei dovuto realizzare.

Ripresi in mano il dossier e incominciai a esaminarne le specifiche.

Certo che si trattava di un oggetto davvero bizzarro. Tecnicamente non era poi così semplice da creare. Si trattava di unire verticalmente tre mezze lune, di diverse misure, con la base circolare che si stringeva e si allargava.

Era una forma irregolare sotto tutti i punti di vista. In pratica, sarebbe stato un po' come unire tre banane.

Improvvisamente mi accorsi di un dettaglio che non avevo notato quando Cadina mi aveva consegnato i documenti. Probabilmente, dal momento che di solito sono molto precisa nel mio lavoro, era capitato a causa dello scompiglio che mi aveva creato quella "gatta morta". Poco male. L'avrei chiamata per avere una conferma.

Dopotutto era stata lei a dirmi di chiamarla per qualsiasi evenienza.

Andai a prendere il biglietto da visita che mi aveva lasciato. L'avevo riposto distrattamente nel cassetto sotto la scrivania. Lo tirai fuori. Lo guardai. E rimasi ammutolita. Ma che razza di biglietto era?

Guardai di nuovo nel cassetto perché credevo di aver preso il cartoncino sbagliato. Ma non ne trovai altri.

Vuoi vedere che quella stronza mi aveva presa in giro?

Ma che senso aveva?

Il cartoncino che avevo in mano era tutto bianco. Sopra non c'era nessuna scritta. Solo un simbolo. Difficile da notare, perché era dello stesso bianco del cartoncino, solo leggermente in rilevo. Una V stilizzata. Nient'altro. Ma era mai possibile che ci fossero persone così bizzarre al mondo? Che razza di gente è che ti consegna un biglietto da visita senza nessun recapito sopra? Pazzesco.

Abbandonai il dossier sulla scrivania e rimasi inebetita a fissare il muro. Decisi allora di accendere il computer nella speranza di trovare qualche informazione su questo benedetto, o maledetto, signor V. Visto il mistero di tutta quella faccenda e soprattutto visto il nome che si era scelto, non riponevo molte speranze sul web. V era uno pseudonimo e io ero quasi certa che non avrei trovato nessuna informazione.

Dopo mezz'ora di navigazione però, trovai qualcosa.


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