trentotto

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Il viaggio fu praticamente uguale alle altre volte: venne un autista a prendermi e mi accompagnò fino a Lugano.

Una volta sul Jet cercai di rilassarmi ma quella risultò un'operazione impossibile.

L'aereo decollò da Lugano intorno alle quattro di un pomeriggio di fine luglio. Meno di un'ora più tardi eravamo già atterrati a Ginevra. Quella volta, oltre al personale di bordo, viaggiai sola.

Fui grata di quella solitudine, perché sarebbe stato imbarazzante condividere il viaggio con qualche altro depravato. Ricordo che, durante il volo, ero talmente agitata che, dopo il primo bicchiere di champagne che mi offrì la hostess, ne chiesi un altro. Non contenta degli effetti calmanti dei primi due ne chiesi un terzo, buttandolo giù in due sorsate prima di iniziare l'atterraggio.

Quando scesi dall'aereo sentivo la testa leggera. Con sollievo mi resi conto di essere più calma di quand'ero partita.

Un'auto mi accompagnò fino all'ingresso della villa. Stetti a guardare il cancello in ferro battuto che si apriva lentamente per consentirci di passare. Percorremmo tutto il viale alberato per fermarci davanti al porticato, di fianco alla fontana. In quel momento mi travolse il dubbio su quello che stavo facendo. Per un attimo arrivai addirittura a pensare di chiedere all'autista di riportarmi all'aeroporto e tornare a casa. Ormai, però, era troppo tardi.

Una ragazza vestita con una tuta nera attillata ci venne incontro e mi aprì la porta: «Benvenuta» disse, mentre scendevo dall'auto.

Guardai la possente costruzione di pietra, con le sue torri e le sue torrette, con i suoi tratti antichi ma allo stesso tempo moderni, col suo sguardo gotico proiettato nel futuro. Mi resi conto che era effettivamente un castello, o almeno, lo era stato in passato.

La ragazza mi fece cenno di seguirla e mi accompagnò all'interno. Mentre percorrevo quel tratto di strada potevo chiaramente sentire i battiti del mio cuore che pompava sangue alla testa.

Una volta dentro il grande atrio d'ingresso la ragazza vestita di nero si dileguò mentre mi venne incontro una donna con un vestito rosso, elegante. I rintocchi dei suoi tacchi sul pavimento di marmo riecheggiavano ad ogni passo, per tutta la sala.

«Salve Giada» mi salutò. Era una bellissima donna bionda. Mi squadrò dalla testa ai piedi mettendomi subito in soggezione. Temevo di aver sbagliato qualcosa nell'abbigliamento ma dopo che la donna finì di squadrarmi mi fece un sorriso.

«Direi che sopra va tutto bene» disse maliziosa.

Mi travolse l'insicurezza e mi venne di nuovo voglia di scappare via. Che cavolo ci facevo io in quel posto? Chi era questa donna che mi squadrava dall'alto al basso? Dov'erano tutti gli ospiti che c'erano la volta precedente? E poi, soprattutto, dov'era V?

Le domande senza risposta si accumulavano nella mia testa rendendola pesante. L'unica cosa che mi confortava e che, in quel momento, mi diede il coraggio di andare avanti, era la consapevolezza che avrei potuto dire basta in qualsiasi momento, per tornare a casa e mettermi definitivamente alle spalle tutta quella storia perversa.

Ma potevo davvero essere certa di avere quella possibilità? M'imposi di smettere di tormentarmi con mille dubbi.

«Comunque io sono Morena, piacere» fece lei.

«Giada» risposi.

«Lo so» aggiunse con un sorriso e ci stringemmo le mani. Mi chiesi se fosse lei regina anche se, in fondo, sapevo che non lo era. La regina non sarebbe venuta ad accogliermi, la immaginavo seduta su uno scranno intenta a giudicare.

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