ventidue

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Io e Sara camminavamo percorrendo la grande sala d'ingresso alle spalle dell'uomo vestito di nero con cravattino rosso, che di tanto in tanto, si voltava sorridendo.

Entrambe eravamo soggiogate dalla sfarzosità di quella stanza immensa. Il pavimento era di marmo lucido nero con venature rosse e a ogni passo le scarpe ticchettavano disperdendo il rumore fino al soffitto, che pareva alto come quello di una chiesa. Enormi quadri raffiguranti scene di battaglie a cavallo e uomini in guerra, riempivano le pareti. Dalla parte opposta a dov'eravamo si trovava una grande scalinata circolare di marmo che portava ai piani superiori.

Io e Sara ci guardavamo intorno, rapite dallo stupore. Non c'era molta gente all'interno dell'atrio. Anzi, a dire il vero, in quell'immenso spazio, sembrava che ci fossimo solo noi.

Oltrepassato l'ingresso l'uomo ci accompagnò lungo un corridoio. Da una parte avevamo un muro di pietra, mentre da quella opposta una lunga vetrata rivolta sul giardino. All'esterno potevamo vedere alcuni ospiti divisi in gruppetti. L'uomo si voltò di nuovo a guardarci e fece un sorriso.

«Prego» disse ancora.

Io e Sara ci guardammo in silenzio. Eravamo a bocca aperta.

Finalmente raggiungemmo una porta a vetri che dava sull'esterno e seguimmo il nostro accompagnatore nel giardino. Il parco era una distesa di prato all'inglese con alberi a grande fusto sparsi qua e là. Si estendeva a perdita d'occhio, fino a digradare verso i boschi in lontananza. Dalla parte opposta, oltre la villa, si stagliava il lago, circondato da morbide montagne ricoperte di verde.

Davanti a noi, non molto distante, c'era una piscina, circondata da tavoli apparecchiati. Su ognuno una tovaglia bianca, posate e bicchieri. Al centro di ogni tavolo era stata messa un'ampolla di vetro con una candela bianca.

Poco distante, appena oltre il pavimento di legno che circondava la piscina, era sistemato un lungo tavolo, anch'esso coperto da una tovaglia bianca, sul quale c'era ogni genere di prelibatezza: intere ceste di frutta e stuzzichini e tartine e una quantità esagerata di bottiglie di vino sistemate in secchielli di metallo pieni di giaccio.

Non poco distante si trovava un pianoforte dal quale il pianista faceva giungere una musica dolce ma assolutamente non malinconica. Alcuni ospiti s'intrattenevano intorno alla piscina, mentre altri si trovavano sparsi nel giardino a chiacchierare e fumare.

Tutti erano vestiti in modo molto elegante. C'era una bella atmosfera, raggiante, contagiosa.

Mister V non c'era, o almeno, non l'avevo ancora visto, da nessuna parte.

Io e Sara continuavamo a seguire il nostro accompagnatore lungo il viale di beola che conduceva al pavimento di legno adiacente la piscina. Si avvicinò a un tavolo con due posti: «Questo è il vostro tavolo per la cena, prego. Potete visitare tutto il parco e, se gradite, potete prendere un aperitivo» disse, indicando il buffet oltre la piscina.

«Grazie» dissi, mentre Sara rimase in silenzio, probabilmente ancora interdetta dall'atmosfera in cui eravamo immerse.

Vidi che, sistemato sul tavolo che c'era stato assegnato, si trovava un cartoncino bianco con sopra scritto, in elegante calligrafia a mano, il mio nome: «Giada»; e niente altro.

L'accompagnatore vestito di nero con cravattino rosso scomparve in un battito di ciglia. Io e Sara rimanemmo sole. Eravamo entrambe un po' sbigottite. Nervose. Eccitate.

«Meno mele che siamo venute» disse Sara. «Non potrò mai smettere di ringraziarti per avermi portato a questo ben di dio».

«Visto?».

V.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora