trentaquattro

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Il tredici luglio faceva un caldo pazzesco. Mentre camminavo per raggiungere il mio studio boccheggiavo. In quel periodo, in studio, tenevo l'aria condizionata accesa e la porta aperta in modo da far girare l'aria, scongiurando l'effetto ghiacciaia.

Di rado entrava qualcuno in negozio e, per la maggior parte, si trattava di turisti tedeschi con la sola intenzione di curiosare. Io cercavo disperatamente di combattere la noia, immergendomi nei disegni di gioielli che, probabilmente, non avrei mai fatto realizzare. Aspettavo il momento di partire per le vacanze e fantasticavo su mete esotiche dove Giulio non mi avrebbe mai portata. Avevamo prenotato quindici giorni in costa Smeralda.

Sentii qualcuno entrare in negozio e, quando mi giunse all'orecchio il timbro della voce della persona ch'era entrata, mi prese un colpo. Cosa ci faceva Cadina nel mio studio?

«Ciao Giada» mi salutò squittendo.

Mi sentivo denudata di fronte a lei. Ero convinta che avesse assunto un tono confidenziale perché sapeva. Sapeva fin dov'era riuscito a spingermi V. Ed era un pensiero che non sopportavo.

«Buongiorno» la salutai.

Era vestita nel solito modo, impeccabile e provocante. Sembrava che cercasse di restare nuda indossando abiti.

«Sono venuta solo per lasciarti questo da parte di mister V».

Mi consegnò una busta di plastica chiusa, rigonfia, dentro il quale non era possibile vedere il contenuto. Quando la presi in mano mi resi conto, dal suo peso, che non poteva contenere solo documenti.

«E che cos'è?» Chiesi.

«Non sono tenuta a dirtelo. E poi non lo so nemmeno io». Fece una lunga pausa, guardandomi lentamente dalla testa ai piedi, come se mi stesse analizzando. Quel suo modo di fare era insopportabile. Mi fece innervosire e mi mise in imbarazzo. Quella stronza sapeva. Ne ero certa.

«Ti saluto Giada». Mi voltò le spalle e se ne andò.

Mi ritrovai sola. Innervosita. Arrabbiata. Rimasi per un momento come un ebete ferma in piedi, con in mano quella busta. Per un attimo ebbi l'impulso di gettarla nel cestino senza nemmeno aprirla. Ormai mi era chiaro che non c'entravo niente con quel gruppo di pervertiti e la sensazione che Cadina sapesse quello ch'era successo tra me e V mi faceva andare su tutte le furie.

Assecondai il mio impulso e gettai la busta nel cestino, ascoltando il tonfo che produsse.

Mi sedetti sulla sedia da lavoro. Vedevo scorrere le immagini di mio figlio, di mio marito, delle vacanze che mille volte avevamo trascorso insieme quando Michele era ancora piccolo, e poi il pensiero di V. Di Parigi. Del motel.

Mi alzai, raccolsi la busta e l'appoggiai sul tavolo. Non potevo resistere alla curiosità di scoprire cosa ci fosse dentro.


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