quaranta

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Morena non tardò.

Mi accompagnò in una stanza della villa che si trovava al terzo piano di una delle torrette affacciate sul lago. Mi mostrò la camera, che per la verità era grande almeno come il mio appartamento di Como. Era divisa in due zone distinte. In una c'era un grande tavolo di mogano sistemato a ridosso delle vetrate che lo circondavano su tre lati. Poco più in là si trovava un divano bianco, rivolto di fronte alla vetrata. Nella sala accanto c'era un letto a due piazze con coperte bianche e un armadio che faceva ad angolo, dove Morena disse che avrei potuto trovare dei vestiti della mia taglia. Li accanto c'era il bagno.

Dopo avermi mostrato velocemente le stanze Morena mi lasciò sola.

Diedi un solo sguardo all'esterno, oltre la vetrata: si vedevano il lago e le montagne. Tranquillità e malinconia. Ero spossata. Avevo il corpo indolenzito e desideravo più di ogni altra cosa fare una doccia.

Entrai nel bagno e rimasi a bocca aperta: era grande più di un monolocale. Tutto piastrellato di bianco. Con un grande specchio su una parete che, dal soffitto, arrivava fino al pavimento. Odore di pulito. Su un ripiano c'era sistemato un cesto di vimini pieno di trucchi. C'erano salviette e accappatoi. Lo scaldabagno in funzione che rilasciava calore. Il bagno era stupendo.

Mi spogliai. Meditai qualche attimo se riempire la jacuzzi o mettermi sotto la doccia. Mi soffermai davanti allo specchio a guardare i segni rimasti sul mio corpo nudo e tormentato.

Il mio corpo. La prova concreta che ero stata io a partecipare a quel gioco perverso.

Io, non un'altra.

Avevo i polsi segnati di rosso per via delle manette. Il sedere terribilmente arrossato, in fiamme. Lo sentivo pulsare mentre doleva anche solo a sfiorarlo. Ma i danni peggiori erano dentro di me. Nella mia anima. Danni che non si potevano curare con un po' di acqua fresca.

Alla fine decisi per la doccia. Desideravo sentire il refrigerio che dona il contatto con l'acqua e temevo che sdraiarmi in una vasca avesse potuto essere doloroso.

Entrai in doccia. Finalmente mi ritrovai sotto un confortevole getto di acqua dolce e tiepida che mi permise di rilassarmi profondamente. Percepivo il torpore. Mi venne sonno.

Continuavo a pensare e ripensare a quel pomeriggio, a come avessi fatto a spingermi fino a quel punto. A com'era stato possibile arrivare a godere in quel modo. Mi chiesi se davvero fossi stata io a farmi legare a un tavolo lasciando che mi sbranassero. Il solo fatto di pensarlo, di ricordare, di rivivere quei momenti nella mia mente, nonostante la stanchezza, mi fece di nuovo eccitare. Ritrovarmi legata, in quella posizione, in balia delle menti perverse dei miei aguzzini, inerme, aveva fatto sì che ogni stimolo si amplificasse a dismisura; aveva fatto sì che mi lasciassi penetrare in quel modo, dove non avrei mai voluto essere penetrata. Aveva fatto sì che riuscissero a scoparmi la testa e mi era piaciuto.

Mi era piaciuto troppo.

Possibile fosse stato così piacevole? Possibile che avessi avuto un rapporto con una donna?

Pensai a quella biondina, al suo tocco esperto di donna che sa come far godere una donna. All'inizio mi aveva disgustata. Mi ero così arrabbiata... Ma ora? Ora bramavo di poter essere di nuovo tra le sue grinfie. Di sentire le sue mani, la sua bocca, la sua perversione sul mio corpo. La sua immoralità di femmina nella mia testa.

Mi sentivo contagiata dal suo veleno.

Ma com'era possibile?

Era stato troppo bello. Troppo pericoloso. Troppo intenso. Troppo perverso. Troppo appagante.

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