{42° Capitolo}

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[Capitolo quarantadue]

Jane

Mi hanno sempre detto che con il tempo tutto passa: passano la rabbia, la paura, il dolore... Persino le ferite, con il tempo rimarginano. Io ci ho sempre creduto. Ho sempre creduto che le mie cicatrici non fossero altro che una conseguenza degli anni sulla ferita inflittami da mio padre.

Adesso, però, è diverso. Molto diverso. Forse perché trentatré giorni soltanto non sono sufficienti per spegnere la mia collera. E nonostante mi sforzi con tutta me stessa di ignorare questo sentimento di furia, di distrarmi e non pensarci più, mi accorgo che è più forte di me. Così forte che mi sembra di combattere una battaglia impari, che la rabbia mi butti a terra e continui a colpirmi, senza darmi il tempo di rialzarmi e controbattere.

Sono trentatré giorni che i miei pensieri hanno un senso unico, che viaggiano come treni ad alta velocità, investendo ogni tentativo del mio cervello di tornare lucido e razionale. Trentatré giorni che ho passato a vagare da sola per le strade di Londra a me sconosciute, a non riuscire nemmeno a riprendere in mano il libro prima dell'esame di fine Gennaio, ad assumere così tanti tranquillanti da sembrare un'anima errante persino agli occhi di Amy, di cui evito addirittura di incontrare lo sguardo. Sono certa che lei abbia capito tutto, solo evito di parlarne. Evito di darle delle spiegazioni che potrebbe non comprendere, come se ogni giorno che passa fosse come quello in cui è cominciato questo mio comportamento evasivo.

Anche oggi mi sono alzata prima del sorgere del sole, dopo aver trascorso un'ennesima notte insonne. Mi sono vestita, sono uscita e ho raggiunto Trafalgar Square in macchina. Ho parcheggiato come meglio potevo, sono andata a sedermi sui gradini della National Gallery e ho aspettato. Ho aspettato, immobile e in silenzio, che l'alba nascesse davanti ai miei occhi e, insieme ad essa, che una nuova giornata cominciasse per i cittadini londinesi. Ho guardato le loro vite scorrere tranquille, con i loro ritardi, le loro corse per arrivare in tempo, i loro caffè nei bicchieri di carta, le loro tranquille passeggiate per la piazza, i loro sorrisi e le loro espressioni mutevoli. Ho osservato ed invidiato la loro placata normalità, che so non mi apparterrà mai. Neanche se lo desiderassi con tutta me stessa.

Adesso, sono di nuovo a casa, a salire assai lentamente i gradini, come se un peso invisibile mi complicasse un'azione semplice come questa. Sono trentatré giorni che abbasso gli occhi ogni volta che sono in Baker Street, che mi affretto ad entrare nell'ingresso per evitare di guardare verso il 221B: potrei incontrare lo sguardo di Sherlock e... Sentirmi in colpa. Sentirmi in colpa per non essermi fatta viva in tutto questo tempo, per non avergli chiesto spiegazioni dettagliate ed essermene andata e basta. Potrei dispiacermene e forse, sotto certi versi, lo sono. Ma non riesco ad ammetterlo, perché sono certa che potrei anche trascinarmi dietro questo risentimento per anni interi, come faccio sempre con tutti. Il fatto che questa volta c'entri Sherlock non dovrebbe cambiare il mio modo di essere.

Scivolo lentamente nell'ingresso e mi richiudo la porta alle spalle, con tutta la delicatezza di cui sono capace. Riesco a sentire un clangore di piatti che cozzano tra loro, motivo per cui scelgo di muovermi cauta, per evitare di attirare l'attenzione di Amanda: ho bisogno dei miei tranquillanti, e ne ho bisogno ora, di nuovo.

Attraverso il corridoio, passando a testa bassa davanti alla porta della cucina, fino ad arrivare a quella del bagno, ma non faccio in tempo a posare le dita attorno alla maniglia che una voce dall'altra stanza mi blocca.

«Jane? Sei tu?»

Trattengo il respiro per un attimo e poi lo lascio andare, richiudendo la mano in un pugno e abbassandolo. «Chi altri dovrei essere?»

Lei si affaccia nel corridoio, con uno strofinaccio umidiccio in mano, e mi fissa con le sopracciglia alzate. «Non so, ti muovi come se fossi una ladra...»

222B, Baker StreetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora