~4~ Il Reggente di Londra

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Lasciammo l'ambiente ovattato dell'infermeria e Gareth mi fece strada lungo il corridoio della residenza. Lo seguii lungo le scale di lucido mogano che conducevano ai piani superiori, stupita di quanto ariosa e mondana apparisse quella dimora. Intravidi altri Artifici sorridenti e quasi fanciulleschi nei modi mentre si mettevano a disposizione dei vampiri; chi porgeva un vassoio, chi un libro, chi semplicemente restava ad ascoltare con dedizione il proprio padrone.

In realtà era molto diverso da ciò che avevo immaginato nei lunghi anni trascorsi a prepararmi nella guerra contro i vampiri: per qualche motivo, sebbene sapessi che gli Artifici venivano trattati con cura, in qualche modo mi aspettavo comunque creature emaciate, con braccia livide sulle quali sarebbero spiccati i segni dei canini del loro padrone. Ma ovviamente dovevo ricredermi: non trovai niente di tutto questo e mi morsi le labbra.

Camminammo insieme senza dire una parola. Gareth diventava sempre più taciturno mano a mano che avanzavamo, evidentemente inquieto per il suo inevitabile colloquio con il Reggente.

Ambrose la ucciderà non appena se la ritroverà davanti.

Rabbrividii, nonostante il bicchiere di tè tra le dita. Temeva che alla fine suo fratello mi uccidesse, con buona pace dei suoi tentativi di tenermi in vita come sua Compagna?

Poiché le mie mani avevano preso a tremare, strinsi più forte il bicchiere, quasi fosse stata l'ultima aderenza alla realtà che mi fosse rimasta.

Terminate le scale Gareth si fermò per un momento e mi guardò.

Per la prima volta riuscii a scorgere l'ombra di un altro sentimento che non fosse strafottenza o ironia; mi guardava come se volesse dirmi qualcosa, ma gli fosse anche insostenibilmente difficile.

«So che non ne hai motivo» disse infine, scrutandomi coi suoi occhi di rubino, «ma sarebbe più facile, se ti fidassi di me.»

«Hai ragione» dissi sostenendo il suo sguardo, «non ne ho motivo.»

Le sue belle labbra si piegarono in una smorfia amara, ma non replicò. Alla fine giungemmo davanti ad una porta, sulla quale sostava un Artificio vestito di nero. Era un uomo giovane e attraente, e s'inchinò a Gareth.

«Il Reggente vi attende, padrone» affermò, aprendo la porta lucida e facendosi da parte con un altro inchino.

Entrammo.
La stanza, per quanto ricca, non era altro che uno studio: un lampadario di cristallo pendeva dal soffitto, illuminando di un chiarore morbido i mobili di legno che arredavano la camera. Documenti di ogni tipo riempivano le superfici, la scrivania in ebano, il tavolino accanto al camino; davanti ad esso, un uomo leggeva una lettera con aria greve.

Quando alzò gli occhi su di noi, seppi senza ombra di dubbio che quell'uomo era Ambrose, il Reggente di Londra, capo della comunità di vampiri della città.

«Buonasera, fratello»

La sua voce era calda e avvolgente come la carezza di un'amante, sembrava promettere gentilezza e giustizia, pietà persino. Somigliava a Gareth in modo impressionante: la forma del viso era la medesima, avorio scolpito da strumenti delicatissimi; gli zigomi alti erano resi più morbidi dalla luce dorata del fuoco nel camino, che gettava ombre danzanti sui lati del suo naso, sul mento volitivo. Ma laddove Gareth era onice e ombra, Ambrose era miele e oro.

Con un cenno della mano diafana ci fece cenno di sederci, e Gareth si accomodò su una delle piccole poltrone di pelle, sorridendo al fratello con un'espressione che da sola era una perla d'insolenza.

Non avendo avuto ordini contrari feci per sedermi sulla poltrona accanto a Gareth, quando lo sguardo di Ambrose sembrò attraversarmi, bloccandomi sul posto.

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