~17~ Le trame dell'ombra

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Nonostante bevessi con costanza il sangue di Gareth, la mia guarigione fu lenta.

Il mio fisico, già debilitato dal violento incontro con i Cacciatori, non aveva avuto il tempo necessario per assorbire completamente il sangue di Luc; così, la tortura della gabbia di luce aveva avuto effetti più profondi del previsto.

Gli eritemi erano svaniti in fretta, così come le lesioni agli occhi. Ma la febbre si era protratta, lasciandomi spesso in uno stato d'incoscienza che aveva spinto Gareth a chiamare James più volte di quanto fosse realmente necessario.

Il medico aveva accettato con serafica pazienza quell'apprensione, limitandosi a semplici controlli di routine sotto lo sguardo irrequieto di Gareth. Le sue mani fresche avevano trovato il battito del mio polso con consumata perizia, mentre con gli occhi – mosto torbido bagnato dal Sole – mi chiedeva silenziosamente di portare pazienza.

«Considerando quello che ha passato, è il normale decorso dell'avvelenamento» rassicurò Gareth, lasciandomi andare, «Devi cercare di ricordare che è umana. Ha bisogno di tempo e molto riposo, niente di più.»

Se il dottore avesse avuto il sentore di ciò che le sue parole avrebbero provocato, forse avrebbe ritenuto saggio tenere per sé le proprie considerazioni.

Gareth infatti si era autodesignato garante di quelle prescrizioni, minacciando più volte di legarmi alla testata del letto ogniqualvolta tentavo di alzarmi e insistendo per infliggermi la presenza di Sara quando lui non c'era.

Il pedante Artificio, incapace di non rendersi utile, era un complesso d'irritante sollecitudine e inutili premure: mi sprimacciava più volte i cuscini, mi strappava dalle mani i libri temendo che affaticassi troppo la vista e puliva qualsiasi superficie riuscisse a raggiungere, forse cercando di rendere più salubre la mia prigione.

Sembrava un gatto costretto giocoforza al chiuso dalla pioggia e sfrecciava da una parte all'altra della stanza rassettando e organizzando l'armadio di Gareth con la precisione di un ingegnere degli spazi.
Il più delle volte mi limitavo a ignorarla con la santa rassegnazione di una martire.

Chi non era possibile ignorare, era Gareth.

I suoi reiterati tentativi di tiranneggiarmi riguardavano per lo più il riposo, ma quando mi strappò la forchetta di mano provando a imboccarmi – sostenendo che non mangiassi a sufficienza – lo picchiai sul naso con una fetta bruciacchiata di pane tostato.

La sua espressione allibita mi strappò una risata maligna e i suoi occhi rossi si assottigliarono.

«Selvatici» bofonchiò lui, mortalmente offeso, «creature ingrate.»

Mi strinsi nelle spalle.

«Se tocchi un'altra volta la mia colazione» risposi, prendendo a sbucciare un piccolo uovo sodo, «il tuo bel viso se la vedrà con il vassoio.»

Mi restituì un'occhiata contrariata.

«Sono lieto di sentire che lo trovi bello» replicò con sarcasmo, «visto con quanta premura hai cercato di sfregiarlo.»

Alzai gli occhi al cielo e ripresi a mangiare.

Gareth afferrò le sue carte e le sparse sul letto, accomodandosi accanto a me. Ne afferrò un paio e prese a scorrerle con gli occhi, incrociando le gambe.

Non avevamo più parlato di quanto fosse successo. Era come se avessimo accettato un tacito accordo in cui nessuno dei due sollevava argomenti scomodi che ci avrebbero portati ancora una volta a scontrarci, come il mio tentativo di fuga o la gabbia di luce.

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