~31~ L'altra parte del buio

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Lasciai entrare la tempesta, quella notte.

L'aria gelida squassò le tende con violenza, deformandole in flutti di seta, mentre le folate impetuose sparpagliavano i fogli di carta della scrivania sul pavimento. Il pregiato cristallo del lampadario tintinnò la sua vana protesta, ondeggiando sotto le raffiche impietose.
Com'era furioso e smarrito, il vento, mentre colpiva e riempiva, senza tregua.

Era stato il suo canto baritonale a svegliarmi, una vibrazione grave che aveva saputo insinuarsi con callida pazienza nei vecchi anfratti della Residenza; un richiamo cui mi ero arresa in fretta, abbandonando il conforto delle coperte per spalancare le finestre, per lasciarmi trovare.

C'era stato un tempo, durante le prime missioni in Superficie, in cui avevo creduto che niente potesse valere l'emozione di sentire il velo della pioggia sulla pelle; eppure, chiunque abbia conosciuto il soffione di una doccia può tentare d'immaginare come debba essere lasciarsene investire, persino se ha vissuto l'interezza della sua esistenza nelle profondità dei bunker sotterranei.

Quella notte, scoprii che le parole non potevano esprimere la verità del vento che si alza, e che nulla nei Rifugi avrebbe mai potuto prepararmi a sentire la sferza dell'aria sul viso, risvegliando un desiderio che nell'uomo è antico come la memoria del sangue: la smania per il volo.

Seduta sul copriletto, con le gambe a formare un nodo di carne, ammirai le folgori spezzare il cielo.
Fu solo quando l'acqua cominciò a inzaccherare il tappeto che mi decisi a chiudere le finestre, in una lotta fra la corrente e le dita ormai intirizzite.

Quando starnutii, mi diedi mentalmente della sciocca.
Non avrei dovuto permettere che l'impulso del momento mettesse in pericolo la possibilità di accompagnare Gareth dai Leinster.
Era stata una sorpresa scoprire che a dispetto di quanto fosse accaduto avrebbe mantenuto la parola data; un'occasione troppo importante perché la lasciassi sfumare a causa di una banale infreddatura, soprattutto considerando quanto Gareth potesse diventare dispotico in merito alla mia salute; non mi avrebbe mai concesso di uscire dalla Residenza se fossi stata meno che sana.

Un oscuro presagio si agitò in fondo al mio stomaco quando ripensai alla morte apparentemente inspiegabile di quel vampiro, al Consiglio che aveva richiesto un'indagine sulla mia presunta compartecipazione.
Fili talmente sottili da poter appartenere all'opera della filiera di un ragno; invisibili e ugualmente vischiosi.
Dovevo sapere.
Dovevo capire.

Cacciai la testa nell'armadio e ne tirai fuori un maglione particolarmente gualcito; era di un pallido rosa che faceva a pugni con il colore dei miei capelli, motivo per il quale la mia vanità aveva preteso di esiliarlo nell'angolo più oscuro e remoto del ripiano.

Lo indossai con pochi gesti impazienti e infilai la porta, prima che il coraggio venisse meno. Sgusciai in corridoio facendo attenzione a camminare sui tappeti, pregando che il legno del parquet non mi tradisse.

I lampi oltre la finestra fecero rilucere in modo inquietante il biancore negli occhi dei dipinti, ma m'imposi di non affrettare il passo, soprattutto quando notai la lingua di luce che filtrava dalla soglia dello studio di Ambrose.

Proseguii per la mia strada e scesi dabbasso, le dita aggrappate al corrimano delle scale, finché non raggiunsi il primo piano.

C'era un'unica porta che non avevo mai attraversato e trattenni il fiato quando ne abbassai la maniglia; questa però seguì il mio movimento senza alcun lamento, così potei avventurarmi all'interno senza timore.

Un'ampia sala in penombra ospitava un tavolo di considerevoli dimensioni, dove con ogni probabilità gli Artifici al servizio della Residenza consumavano i loro pasti. Piattaie di legno lavorato e credenze ricolme di porcellana abbellivano le mura bianche dai soffitti a volta, e in un locale adiacente riconobbi la cucina.

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