Avevo così tanto da dire.Soffocai il ruggito dei miei pensieri, cercando di tenere a bada il feroce mal di testa che mi schiacciava le tempie. La penombra era un lenimento gradito; rendeva più sopportabile il fuoco che mi straziava gli occhi, un obolo che da oltre un anno pagavo a Morfeo perché si tenesse lontano da me.
Superai un cumulo di legna carbonizzata, forse un vecchio armadio sfondato, forse una dispensa crollata; difficile stabilirlo con sicurezza. L'odore pungente della cenere impregnava l'aria, satura del sottile pulviscolo che si levava dalle macerie al mio passaggio.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che mi ero concesso di porgere omaggio ai miei fantasmi, ma loro non sembravano curarsene troppo. Continuavano ad attendermi, imperturbabili e fedeli, abitando le ombre della vecchia residenza dei Gotha.
Sfiorai i resti di uno scrittoio, seguendo le forme delle tarsie lignee, annerite da un velo di fuliggine. Una piccola chiave in ottone serbava ancora il contenuto del cassetto; la voltai piano nella toppa e questa scattò senza opporre resistenza. All'interno, alcuni fogli si erano salvati dalla furia vorace del fuoco: bozzetti dal tratteggio insicuro, copie di illustrazioni trovate nei libri della biblioteca.
E, come richiamata dal respiro della carta, lei fu davanti ai miei occhi: Elise, china su quello scrittoio, coi capelli bruni a celare parte del viso e le dita macchiate di sanguigna, con cui poi finiva sempre per sfregarsi distrattamente la fronte, il naso.
Elise dalle ossa di vetro, dalla voce sottile.C'erano state volte in cui mi ero soffermato a osservare il suo lavoro, quando ancora provavo curiosità per quell'Artificio che, mi era stato detto, era mio. Poiché non sapevo cosa dire l'avevo guardata a lungo, in silenzio, finché lei aveva intinto la punta sottile del suo pennello nell'azzurro ciano, prendendo a stenderlo con attenzione su quello che, immaginai, dovesse essere il cielo.
«Perché hai scelto questo colore?» avevo domandato poi, vinto dalla curiosità.
Elise aveva sollevato gli occhi, sorridendo al mio interesse. «Perché il cielo è azzurro, dolce padrone», aveva risposto, con tutta la sicurezza dei suoi undici anni.
Non avevo replicato, limitandomi a sfiorare la boccetta che conteneva il viola e i suoi toni sfuggenti. Quella, credo, fu la prima volta in cui compresi che io ed Elise non vedevamo il mondo con gli stessi occhi; e molte altre ne sarebbero venute, conducendomi sempre più lontano da lei, finché alla fine non avevo dimenticato le parole con cui mia madre me l'aveva affidata.
Trattala bene, aveva detto, baciandomi sulla fronte. Abbine cura.
Non ne ero stato capace.
Avevo preteso le sue attenzioni anche se m'infastidivano, perché ero egoista e viziato; e volevo essere il centro attorno al quale danzava il suo mondo, nonostante poi la ricambiassi con l'indifferenza.L'amavo, ma mi annoiava.
Era molto più dolce, invece, seguire Gaspar alla Corte, che ogni notte si schiudeva per noi con nuovi doni da offrire.Era dovuta morire perché tornassi a vederla.
«Ti ho cercato ovunque.»
La voce di Gaspar era bassa, morbida come un guanto sui miei nervi sfibrati. Assi di legno scricchiolarono sotto il suo passo quando si portò al mio fianco, il posto che aveva occupato fin da quando eravamo bambini. «Non saresti dovuto sparire in questo modo. Non dopo quello che è successo.»Non ne pareva troppo sorpreso, però; del resto, quando si trattava di me non lo era mai.
I suoi occhi erano mutevoli come fiamme, semplici da comprendere.
Gli umori dei vampiri trovavano espressione in quelle infinite sfumature di rosso, che si piegavano ad una comunicazione in cui erano rari i fraintendimenti.
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Dies Sanguinis
Vampire[ • Conclusa e in revisione • ] Anno 2204. Quando il Sole è diventato velenoso, gli esseri umani hanno cercato una soluzione nell'ingegneria genetica, mutando il DNA di alcuni soggetti per sopravvivere. La mutazione ha però dato vita a una nuova raz...