~22~ Interludio di pioggia

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La pioggia prese a picchiettare dolcemente sul parabrezza di vetro, infrangendosi in stille d'acqua che scivolavano rapide sulla superficie lucida e nera dell'auto in movimento.
Londra appariva come una bella donna dal volto velato, scorrendo in fotogrammi al finestrino; diapositive dai colori desaturati di vecchie auto abbandonate sul ciglio della strada e di quella vegetazione oscura e inasprita della Superficie.

Talvolta riuscivo a scorgere i rari passanti seminascosti da grandi ombrelli scuri, cogliendo solo un baluginio rosso nei loro volti lividi prima di vederli svanire.

Gareth guidava in silenzio, avvolto nel lungo soprabito di lana che aveva recuperato dalla camera di Dahlia, e nella quale mi ero rifiutata di entrare; era stato da quel momento che ogni parola si era fatta più difficile da pronunciare, finché entrambi non ci eravamo rinchiusi in un mutismo che era perdurato fino ad allora.

Fu un guizzo bianco oltre gli alberi che mi fece riportare lo sguardo sul finestrino e che mi fece spalancare gli occhi per la sorpresa.

«Ferma l'auto» esclamai, lottando contro la cintura di sicurezza e senza staccare gli occhi dalla struttura che finalmente riuscivo a scorgere nella sua interezza, «Fermala!»

Gareth mi rivolse uno sguardo allarmato.
«Sei impazzita, Kitty?»

Miracolosamente però accostò ed io mi precipitai fuori dall'auto, sbattendo con forza la portiera e lasciandomi investire dalla pioggia scrosciante.

Ignorai i borbottii indispettiti di Gareth a proposito della mia grazia, e affondai gli stivali nelle pozzanghere scure e nelle foglie putride che si erano accumulate sulla strada, inzaccherandomi d'acqua e tuttavia incapace di attendere anche un solo minuto di più.

Buckingham Palace si ergeva su Londra con gelida alterigia, una costruzione neoclassica di pietra che per tutta la vita avevo guardato in fotografie scolorite e protette da lastre di vetro, affinché dita nostalgiche non potessero usurarle più di quanto non lo fossero già.

Avanzai verso il Palazzo finché non mi accorsi che il cancello nero era presidiato da due imponenti militari, i fucili pronti fra le braccia muscolose. Non erano Cacciatori: era la Guardia del Reggente, dalle divise scure impreziosite da filigrana d'oro.
I loro occhi rossi mi scrutavano attenti, e per un attimo esitai.

«Tutta questa fretta per poi fermarci qui?» domandò Gareth, la sua voce morbida appena oltre le mie spalle.

Non mi stupii di ritrovarlo al mio fianco, il bavero del cappotto nero sollevato fino al mento pallido, la pioggia che rendeva i suoi capelli più scuri che mai.

«Mi faranno del male?» domandai, accennando col mento alle due guardie.

«Sei con me» rispose lui, pacato.

Annuii, mentre un tuono percuoteva l'aria alle nostre spalle.

Ripresi a camminare con la certezza che Gareth mi seguiva, indietro di appena un passo, e questa consapevolezza mi diede il coraggio di ignorare le due guardie e accostarmi al cancello. Ne strinsi le sbarre di ferro, l'odore della vernice e del metallo legati al sentore dell'umidità e della terra bagnata.

La pioggia mi incollava i capelli al volto, scorrendo in rivoli freddi oltre il cappotto e infradiciandomi i vestiti, ma non m'importava: pochi Selvatici potevano vantarsi di aver visto quel monumento, le vestigia di un passato andato perduto e rimpianto a lungo.

Il Palazzo sembrava non avere sofferto il declino che invece aveva investito la città: era evidente che i vampiri se ne fossero presi cura, restaurandolo con maestria e riportandolo ai fasti di quando era ancora il simbolo della monarchia inglese e del dominio degli uomini sulla Superficie.

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