~5~ Il canto del sangue

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Quando la porta dello studio del Reggente si chiuse alle nostre spalle, osservai Gareth chiudere gli occhi.
Per un istante parve semplicemente un ragazzo, reduce da una prova di volontà.

Ma non era semplicemente un ragazzo.

Ne avevo avuto la prova quando il sorrisetto sghembo che faceva spesso mostra di sé sulle sue labbra chiare si era tramutato in una smorfia amara, nel sorriso cinico di un assassino, mentre con estrema franchezza ammetteva di avermi scelta come Compagna per espormi a nemici e alleati come un bottino di guerra.

Gli occhi cremisi di Gareth si aprirono e trovarono i miei.

«Immagino che tu sia stanca» disse, e senza aspettare una risposta da parte mia si diresse verso una delle porte attigue, che dava su un piccolo salottino che faceva da anticamera ad un'altra porta in mogano scuro.

Lo seguii, indugiando con lo sguardo sulla mobilia lucidata con attenzione, sul vaso di cristallo ricolmo di peonie fresche posto sul tavolo al centro della stanza.
Com'era possibile che in quella casa ci fossero fiori freschi?

Poi, su un piccolo piedistallo, individuai un violino.

Meravigliata mi avvicinai al magnifico strumento di abete rosso. Sfiorai le corde tese sul ponticello, le splendide effe nere intagliate con maestria sulla cassa. Il legno, lucido di resina, sembrava antico.

«Suoni?» domandò Gareth, sorpreso dal mio improvviso interesse.

Immaginai che non ci fosse nulla di compromettente in quella domanda, così mi ritrovai a rispondere.

«No. Gli strumenti musicali non hanno utilità nei Rifugi, così... Non veniamo incoraggiati.»

Non aggiunsi che quando avevo appena quattro anni mio padre aveva cercato di insegnarmi, ma non aveva avuto il tempo di farlo, finendo per spiegarmi unicamente come si teneva in mano un archetto. L'ultimo ricordo che avevo di mio padre era di lui che suonava un vecchio violino, mentre io e mia madre danzavamo nello spazio minuscolo della cantina dove ci eravamo rifugiati, sempre attenti a che non ci fossero orecchie indiscrete. Volevamo raggiungere i Rifugi, ma era difficile. Potevamo viaggiare soltanto di notte e i vampiri erano ovunque.

Non riuscivo neppure a ricordare il suo viso, e non avevo foto di lui. Sapevo soltanto che aveva i capelli rossi e che le sue grandi mani mi sfioravano il viso, prima di mettermi a letto. Ma la sua musica, quella mi era rimasta nelle profondità del sangue e della memoria.

«E' uno Stradivari. Ne esistono pochissimi al mondo» aggiunse, e la sua voce assunse una sfumatura nuova; era evidente che dovesse esserne orgoglioso.

Eppure non riuscii a impedirmi di domandarmi a quale artista umano fosse stato rubato. Qualcuno che doveva aver amato quello strumento come un figlio, custodendolo gelosamente come un tesoro di inestimabile valore.

La rabbia fu un fiotto di bile che mi sforzai di contenere.

«Dove l'hai preso?»

La mia domanda sembrava più un'accusa e Gareth se ne accorse. Sollevò un sopracciglio.

«Era di mia madre. Anche questa casa lo era.»

Lesse la sorpresa nel mio volto e un lento sorriso si fece strada sulle sue labbra tese, ma i suoi occhi rimasero gemme fredde.

«I miei antenati umani erano facoltosi. Mio nonno comprò il siero per salvaguardare la famiglia, e trasformò se stesso e i suoi figli in quelli che poi furono chiamati vampiri» si guardò le mani, pallide come quelle di un cadavere, «il resto, è storia.»

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