~46~ L'ultimo filo

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Sembrava che il cielo avesse voglia di dare spettacolo, quel giorno, vestendosi della sua miglior livrea. Pigmenti preziosi di malva e lavanda si mescolavano nel legante naturale dell'aria, regalando un'armonia di sfumature degne di un pennello impressionista.

Eppure, per quanto splendida, non era quella la bellezza che stavo cercando, o che mi aveva spinto ad accostarmi a una delle alte finestre. Oltre quei vetri infatti, che recavano ancora l'ombra dell'ultima pioggia, Shari e Clarisse passeggiavano nei giardini di Buckingham Palace, fra gli ultimi, ostinati arbusti che ancora perseveravano nel sopravvivere in Superficie.

Le labbra chiare dell'Artificio si muovevano, talvolta accompagnate da un gesto della mano guantata o da un sorriso incoraggiante, che però non si rifletteva mai sul volto pensieroso della sua interlocutrice.

Shari seguiva con pazienza i percorsi scelti da Clarisse, i capelli rossi disciolti sulle spalle e le piccole mani affondate nelle tasche del soprabito, forse per trovarvi un'illusione di calore. Un tentativo inutile, in quel caso, perché le sue dita erano sempre fredde.

Sempre, almeno finché non le posava sulla mia pelle, superando il confine degli abiti; era delizioso, allora, cogliere quel rossore invitante che le ingentiliva l'incarnato, sentire le sue mani e il suo sangue adeguarsi al tepore del mio corpo.

La osservai sollevare il viso verso il cielo, esporre senza alcun pudore la gola nuda. Nessuna sciarpa la proteggeva dal gelo del vento, dal mio sguardo cupido; solo quella carne delicata da onorare coi denti, da lacerare piano, in un abbraccio sporcato da una punta di violenza.

Sentii la morsa della fame acuirsi, crudele, allettata da quello stralcio di sogno; una smania, prepotente e continua, che da giorni non mi consentiva di pensare ad altro.

Dopo il nostro ultimo, penoso colloquio non avevamo più parlato. Ci eravamo rivolti solo poche frasi essenziali e senz'anima, con lei che si rifiutava di guardarmi ed io che battevo velocemente in ritirata, temendo di sentire quello che, in cuor mio, già sapevo.

La doppia porta del salone si aprì, richiamando la mia attenzione. Fu Gaspar ad attraversarne la soglia; i lunghi capelli chiari, solitamente raccolti in una coda morbida sulla spalla, erano sciolti sulla divisa nera, incorniciando il suo volto inquieto.

Immaginai che fosse di ritorno dalla riunione del Consiglio, che si svolgeva a qualche camera di distanza; da quando avevo abbandonato la maggior parte dei miei doveri, era lui a rappresentare i Cacciatori durante quei consessi.

«Hai un aspetto orribile», commentò, scrutandomi con fare critico. «Dormivi già a malapena, e adesso non mangi. Se non stai attento, si dirà che stai prendendo a modello qualche deprimente eroe romantico.»

Tornai a osservare i giardini, senza dissimulare il fastidio. «C'è un particolare motivo per cui mi rivolgi la parola o stai solo dando fiato alla bocca?»

Non avevo bisogno di guardarlo per sapere che un ghigno si stava facendo largo sulla sua faccia. «E hai un umore abominevole», continuò, per nulla turbato dal mio tono scontroso. «Volevo avvertirti che la riunione è terminata. Se non vuoi incontrare l'intero Consiglio, ti suggerisco di ritirarti.»

Non fu difficile immaginare Gideon Mowbray, Benedict Leinster e Baron Grosvenor rinchiusi nella stessa stanza, a sfidarsi a colpi di acida cortesia; era da considerarsi un miracolo che Ambrose fosse ancora capace di sorridere.

Scrollai le spalle, cercando di restare impassibile. «Posso sopportare qualche commento», replicai asciutto.

Gaspar si guardò bene dal rispondere, ma il suo silenzio fu eloquente; non ero mai stato in grado di mentirgli.

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora