~27~ Oppio nero

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Un giardino fosco in cui fiorivano decine di bare di vetro, delicate e lucide come crisalidi trasparenti. Ombre esanimi giacevano sotto la superficie lattiginosa, spoglie inerti devastate da una furia inesorabile.
Mi ritrovai a sfiorarne una con le dita, seguendone le forme morbide e sinuose.
Cune di cristallo per incubi senza fine.

Fu un colpo smorzato a squassarmi le membra e la memoria, quasi quel suono vibrato provenisse dal mio stomaco per poi disperdersi nell'aria immobile.
Un altro colpo.
Lo seguii, calpestando l'erba scura di quel luogo sinistro, e questo mi condusse a una delle gabbie; con movimenti pesanti e rallentati ne sollevai faticosamente il coperchio, e questa si dischiuse sotto i miei occhi.
La riconobbi sotto le piaghe profonde scavate nella sua carne, oltre la patina bianca che le offuscava la vista.
«Finirai per dimenticare anche me?» domandò, la voce scricchiolante, secca come un ramo spezzato.

«Non potrei» mormorai, soffocando il desiderio di toccarla, «sei tutto ciò che mi tiene ancora insieme.»
Non aveva più labbra per sorridere, ma la sua bocca si mosse, assumendo una piega crudele.
«Non c'è più niente da tenere insieme, sei solo ombra e macerie. Non te ne sei ancora accorta?»

Il sopore si ritrasse lento in un angolo oscuro della mente, lasciando che la mia coscienza tornasse a esercitare la propria potestà su nervi e muscoli.
Nel buio ricostruii me stessa, quasi fossi stata un burattino dagli arti slegati e tenuti insieme da un unico filo rosso di volontà.
Riguadagnai sensibilità alle gambe irrigidite dal sonno inquieto, alle mani che stringevano convulsamente la vecchia coperta di lana grezza cercando di trattenere un calore fuggevole.

Riconobbi nella piccola lacrima che scivolò sul naso un sogno su Cami; la scacciai, strofinando le palpebre sugli occhi asciutti e sul velo di sale della nostalgia.
Il bisogno di aggrapparmi a lei non mi avrebbe mai lasciato scampo, come le memorie cui era legata e che ormai possedevano il gusto amaro di ciò che non avrebbe più fatto ritorno.

Mi sollevai da quel giaciglio dall'odore stantio di muffa e umidità, gettando una rapida occhiata verso gli Artifici addormentati. I loro volti stropicciati e sporchi di polvere parevano un torto contro la bellezza, un crimine contro qualcosa di così puro e innocente da essere un peccato intollerabile dinanzi agli occhi di Dio.
Se solo non avesse perso da molto tempo la voglia di guardare.

L'accampamento dei ribelli era avvolto nel buio; le luci elettriche sparse tra le tende e appese ai muri erano state spente in una sorta di coprifuoco concordato. Gli unici guizzi armoniosi di luce provenivano da un contenitore di metallo dai bordi anneriti dalla fuliggine in cui scoppiettava un piccolo fuoco, alimentato da frammenti di legno dall'origine oscura e vecchi fogli di giornale accartocciati.

Mi avvicinai, attratta dal calore e dal conforto di quel chiarore che illuminava un poco gli archi bassi di quel sotterraneo dimenticato.
Fu in quel momento che mi accorsi delle due figure appoggiate contro il muro, stravaccate in una posa rilassata.

Lochan si rigirava fra le dita una fiala di vetro, facendo tintinnare come campanelle le piccole sfere brune contenute all'interno. Accanto a lui riconobbi il ragazzino dagli occhi vispi che gli aveva consegnato la lettera dei vampiri, la bocca un po' aperta nella rilassatezza del sonno e un vecchio gatto bigio accoccolato in grembo, che mi lanciò un'occhiata malevola.

Quando fui abbastanza vicina da sollevare le mani per scaldarmi i palmi, Lochan alzò lo sguardo.

«Dovresti dormire» disse piano, la voce resa rauca dal silenzio prolungato.

Sfregai piano le mani, cercando di riattivarne la circolazione.
Una risata, leggera come il suo sollievo.
Hai sempre le dita fredde.

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora