~43~ Verità sbiadite

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Una luna gonfia e livida affiorava dal cielo, sfatta come il volto di un annegato, mentre refoli d'aria fredda si sollevavano dal Tamigi, spargendo sulla città il respiro marcio del fiume.
La corona dell'inverno si era posata su Londra, bianca come la galaverna che copriva i rami nudi degli alberi sui margini delle strade.

Ci scortarono in un edificio abbandonato, un antico palazzo di pietra grigia dalle finestre spezzate, oltre le quali dimoravano ombre vive, simili a oscure sentinelle. Il pavimento dell'atrio era ricoperto da una coltre di polvere grigia e calcinacci, vetro in frantumi e sudiciume trascinato dal vento. Una densa cappa d'umidità rendeva l'aria greve, opprimente quanto i cenci di muffa scura che soffocavano le pareti come drappi funebri.

La stretta di Lochan era risoluta attorno al mio braccio. La muscolatura contratta della mascella tradiva la sua tensione quanto il cipiglio che ne adombrava le iridi chiarissime. Scrutava ogni angolo, in allerta; ma alla fine, il suo sguardo tornava a concentrarsi sulla schiena di Gareth, il quale apriva la fila con due Ribelli armati alle calcagna.

Rabbia e ansia serravano in un nodo acido la bocca del mio stomaco.
Non riuscivo ancora a credere di essere stata tanto ingenua da espormi in quel modo alle loro armi, stupidamente certa che Lochan non mi avrebbe minacciata; non dopo aver giurato di salvarmi, non dopo la collera che l'aveva colto nel riconoscere i segni del Sole sulla mia pelle.

Lo sorpresi a osservarmi di sottecchi; studiava il sangue ormai secco sulla mia fronte, le labbra screpolate per le volte in cui vi avevo affondato i denti.

«Non avrei voluto coinvolgerti», affermò, tornando a volgere lo sguardo sulla strada, «ma era l'unico modo per avere lui.»

Non risposi, deglutendo la replica acre che mi artigliava la laringe e che lottava per trovare voce.

C'era stato un momento, fra gli archi e le colonne antiche della città sotterranea, in cui Lochan ed io avevamo riconosciuto nell'altro una eco della stessa sofferenza, la danza di due anime disperate sui margini del medesimo abisso.

Nonostante nutrisse dell'empatia nei miei confronti, però, non aveva mai conosciuto remore nell'usarmi; prima per salvare Adam, poi per vendicarsi su Gareth.

Oltre quei crepacci di ghiaccio che erano i suoi occhi, Lochan valutava e sacrificava quanto necessario sull'altare dei propri obiettivi.

Discendemmo delle scale secondarie, rischiarate unicamente dalle torce che alcuni Ribelli stringevano fra le dita. Per un attimo, riuscii a scorgere il volto di Gareth; non v'era alcuna emozione a increspare la sua calma, a turbarne i lineamenti.

Il sangue lordava la sua camicia, fradicia al punto da incollarsi al suo torace come una seconda pelle.
Quando la daga era stata estratta con forza dalle sue carni, un fiotto di sangue era sgorgato fra le sue labbra, ma nessun lamento aveva soddisfatto la brama di violenza dei suoi aguzzini. Così lo avevano costretto a rialzarsi, spintonandolo in avanti perché potesse camminare davanti a loro. Ma non erano le pistole puntate sulla sua schiena a comprare la sua collaborazione, la sua quieta arrendevolezza; ero io.

Ogni bacio delicato, ogni aperta manifestazione d'affetto nei miei confronti era stata la cote con cui lui stesso aveva affilato la lama che infine gli avrebbe trafitto il cuore; perché mai, mai avrebbe rischiato la mia vita per difendere il proprio orgoglio.

Raggiungemmo una stanza sgombra e priva di finestre. Doveva essere stato un deposito; vecchi raccoglitori dai documenti macchiati di nero erano stati accatastati in pile precarie, insieme a vecchi monitor sfondati.

Un tanfo nauseabondo impregnava l'aria, ma non poteva provenire dalla carta muffita; individuai dei vecchi tubi che gocciolavano liquami torbidi, che si accumulavano nei punti dove il pavimento era stato divelto.

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora