~49~ Il peso del tradimento

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Disteso sul mio letto, le braccia incrociate dietro la testa e i capelli sparsi sul guanciale come ragnatele d'oro, Gaspar mi osservava, annoiato. «Ci vuole ancora molto?» domandò.

Non c'era alcuna tensione nel suo tono, ma riconobbi comunque l'inquietudine che albergava oltre l'apatica maschera del suo disinteresse. Dissimulava la preoccupazione, fingendo che nulla, quella notte, potesse andare per il verso sbagliato.

«Ho quasi finito», risposi. Terminai di tracciare le ultime frasi con la mia grafia sottile e appuntita, mentre la carta s'impregnava tanto d'inchiostro quanto della speranza che, un giorno, Ambrose potesse capire.

Ripiegai il biglietto con la stessa cura con cui avevo soppesato le parole, poi lo riposi nella busta. Vergai il nome di mio fratello, percorrendolo più lentamente di quanto fosse necessario, quasi a rimandare l'inevitabile separazione. Infine, chiusi il mio addio e il mio rimorso nel cassetto della scrivania, certo che presto o tardi gli sarebbero stati consegnati.

«Hai fatto come ti ho chiesto?» domandai, sollevando lo sguardo su mio cugino.

Lui annuì, serio. «Troverai l'auto dove abbiamo concordato. La mia unica perplessità riguarda il come la raggiungerai.»

Scrutai le lancette opache dell'orologio, un orrore barocco di spirali dorate e complicate torsioni. Tre ore dopo la mezzanotte.

«Non ho alternative. La Guardia controlla ogni ingresso del Palazzo», replicai. «Quel passaggio è l'unica speranza di riuscire a portare Shari lontano da qui.»

Gaspar si levò a sedere, pensieroso. «Sono passati più di cinquant'anni da quando qualcuno lo ha attraversato», rispose, abbassando la voce. «Potrebbe essere crollato, o Dio solo sa che altro.»

Avevo valutato quella possibilità; nondimeno, restava l'unico piano percorribile.

«Se hai un'alternativa da suggerire, ti ascolto», ribattei, con un tono più aspro di quanto meritasse.

Gaspar rimase in silenzio, risentito, così mi costrinsi a usare un tono più conciliante: «E' la scelta giusta. Ne sono sicuro.»

Lui fece per replicare, ma dei timidi colpi alla porta interruppero quella che, ne ero certo, sarebbe stata una risposta pungente. Senza attendere un invito, un Artificio scivolò con grazia all'interno della camera, discreta e silenziosa come le avevo ordinato. I lineamenti del suo volto erano gradevoli, così come le forme morbide del suo corpo, avvolte in una modesta divisa da cameriera.

Gaspar inarcò un sopracciglio. «E' davvero il meglio che sei riuscito a trovare?»

Mi alzai, deciso a non prolungare la questione più del necessario. L'aspetto di quell'Artificio non aveva alcuna importanza: bastava soltanto che servisse allo scopo. «Perdona la scortesia di mio cugino», dissi con garbo, avvicinandomi a lei. Le sue iridi erano di un bel color pervinca, una tonalità impossibile da trovare in un Selvatico.

Lei chinò la testa. «Non c'è nulla da perdonare, mio signore», rispose con la sua voce dolce, flautata. «Se non sono di vostro gradimento, posso cercare qualcun'altra.»

Sul volto di Gaspar si aprì un ghigno malevolo. «Non scomodarti, cara», ribatté. «Il Princeps ormai ha gusti complicati.»

Ignorai il suo tentativo di punzecchiarmi, concentrandomi sull'Artificio. «Scopri il collo», ordinai, laconico.

Lei non se lo fece ripetere. Sbottonò la camicetta della divisa senza esitazioni, abbastanza perché oltre alla curva della gola s'intuisse la forma acuta della clavicola. La fame mi spinse ad allungare una mano per scoprire un po' di più quella pelle rosea, identica a quella degli altri Artifici; poi la costrinsi a piegare il capo, esponendo la giugulare. Non oppose alcun tentativo di rifiuto, con quella resa assoluta, incondizionata, insoddisfacente.

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora