Non avevo mai conosciuto il silenzio.
Nei Rifugi avevano tentato di inculcarci il valore della comunità, l'inestimabile importanza del restare coesi contro un nemico subdolo e vorace, il prezioso noi contrapposto al loro.
Capitava dunque di rado che ci lasciassero fare qualcosa da soli: ogni attività era organizzata in modo che fossimo sempre in gruppo, cosicché finivamo per trovare confortante la nostra reciproca compagnia.
Un continuo brulichio di voci e suoni che aveva lo scopo di soffocare una verità che sobbolliva nelle nostre coscienze e che se ascoltata avrebbe finito per annientarci: che eravamo pochi, e fragili, e senza speranza.Persino nel buio delle camerate, quando la stanchezza vinceva ogni resistenza e i muscoli invocavano la dolce grazia del sonno, era il suono del respiro dei miei compagni di stanza a riempire gli spazi vuoti tra i nostri letti, a congiungere le nostre solitudini.
Non avevo mai conosciuto il silenzio, prima della gabbia.
Credevo si trattasse di semplice assenza di suono: un'infinita e lattiginosa pace, come quella della biblioteca, dove il fruscio morbido delle pagine era l'unica costante a scandire un tempo sospeso, dilatato.
L'ignoranza è così gentile nei nostri riguardi.
Quando Gaspar m'inoculò il miorilassante con una siringa, non ne compresi il motivo. Doveva solo trascinarmi in una gabbia, una maledetta prigione composta da sbarre crudeli e pareti di cemento armato; cosa importava cosa facessi al suo interno?
Ma la gabbia di luce non era niente di tutto questo e compresi la spietata ironia di Ambrose solo quando le porte in acciaio temprato dei sotterranei si aprirono davanti ai miei occhi increduli.
Un'enorme stanza illuminata da luci al neon conteneva diverse capsule di vetro opaco, grandi abbastanza da contenere un uomo adulto. Si alternavano a strumentazioni di raffinata ingegneria, collegati a monitor accesi che diffondevano nell'aria un tenue alone azzurrino.
Gaspar si avvicinò ad uno dei monitor accesi e quando inserì un breve codice, una delle capsule si aprì, dischiudendo il suo interno asettico.
Una bara di pallido opale, scintillante e mortifera.
Qualcosa nella mia mente inceppata cominciava a capire.
«No» bisbigliai, facendo un passo indietro. Il miorilassante tuttavia iniziava a fare effetto e barcollai perdendo l'equilibrio.
Gaspar mi prese tra le braccia prima che potessi battere la testa e mi scostò una ciocca di capelli dal viso, con qualcosa di molto simile alla tenerezza.
«Sai di meritarlo, delizia» disse dolcemente, sollevandomi senza sforzo e facendomi distendere sul materassino nero all'interno della capsula, «Ambrose è stato magnanimo. Un giorno qui dentro equivale a tre giorni di radiazione diretta. Niente che tu non abbia già sopportato, no?»
Non riuscii a rispondere, il corpo apparentemente sconnesso dalla mente. Potei soltanto guardare Gaspar mentre mi sorrideva con nuda perfidia e abbassava il coperchio della capsula fino a richiuderlo.
Poi, fu il vuoto.
Un senso di angosciosa claustrofobia mi pervase. Sembrava di essere in una stramaledetta scatola cinese: bloccata dentro il mio corpo immobile e rinchiusa dentro una bara di vetro.
Sentii la crisi respiratoria squassarmi il petto, le lacrime affollarsi fra le mie ciglia.
Avrei voluto gridare, battere i pugni su quel vetro, dare sfogo al panico che mi artigliava le viscere e coagulava i pensieri, sfuggire a quell'innaturale immobilità.
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Dies Sanguinis
Vampiri[ • Conclusa e in revisione • ] Anno 2204. Quando il Sole è diventato velenoso, gli esseri umani hanno cercato una soluzione nell'ingegneria genetica, mutando il DNA di alcuni soggetti per sopravvivere. La mutazione ha però dato vita a una nuova raz...