~36~ La voliera

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Passai le dita fra le spighe azzurre della lavanda, lasciando che le infiorescenze odorose mi solleticassero i palmi mentre si flettevano con la remissività con cui avrebbero accolto la carezza del vento.

A differenza della pace oscura e raccolta della Corte, la voliera riecheggiava di fischi prolungati e vivaci cinguettii; era un'agorà di attività e fermento, che aveva luogo fra le foglie lucide e i rami nodosi degli alberi da frutto, continuamente sconvolti da saltelli e frulli d'ali improvvisi.

Gareth mi teneva ancora per mano, guidandomi lungo un percorso che aveva senso soltanto per chi l'aveva già intrapreso; ci facemmo largo fra gli arbusti finché raggiungemmo una distesa di erica in fiore, punteggiata da cespugli bassi e sarmentosi, proscenio del chiocchiolio musicale dei pettirossi.

Ogni volta che riconoscevo un nuovo esemplare stringevo più forte la presa sulle sue dita bianche; che fosse un merlo, un passero o un'allodola, dovevo soffermarmi a osservare con stupore i colori lucenti del soffice piumaggio, la forma del becco, lo splendore di una creatura che nei Rifugi era considerata estinta.

E volevo che anche lui li vedesse, che condividesse la mia meraviglia; ma soprattutto, volevo che capisse il viluppo di emozioni che mi stringeva la gola.
Mi aveva donato la Superficie, prima del Sole.

«Li avete salvati», bisbigliai, incapace di alzare la voce di appena un tono, nel timore di spaventarli.
La carezza del suo pollice fu delicata; appena un arco disegnato sul dorso della mano, mentre mi osservava con quell'intensità che sapeva risvegliare movimenti proditori nel mio cuore.

Sotto il suo sguardo, la leggerezza che provavo era inebriante. Non c'erano parole per descrivere quel lieve dilatarsi dell'anima, prima nascosta nelle pieghe profonde del mio corpo, poi sempre più prossima alla pelle, sospinta dal desiderio di essere toccata da quelle mani, riconosciuta da quelle labbra.

«E' stato mio nonno», replicò piano, adeguando con garbo il suo tono al mio, mentre m'invitava a proseguire verso la nostra meta, «in gioventù amava la falconeria. Quando gli uccelli iniziarono a morire, costruì questo posto per salvare i suoi falchi.»

Era evidente che fosse riuscito a fare molto di più; avevo contato almeno una decina di specie fra le fronde, soggetti unici e dal valore inestimabile, che i Selvatici non avevano neppure provato a salvare. I livelli più esterni dei Rifugi erano riservati agli animali, ma solo per quelle razze che erano state considerate utili.

«All'inizio li teneva nelle gabbie, ma da ragazzino mio padre continuava a liberarli», raccontò, le labbra avvenenti piegate in un sorriso leggero, «così alla fine si arrese.»

Raggiungemmo le rive di un piccolo stagno, la superficie immobile ricoperta da diversi cuscinetti di alghe di un verde intenso, brillante. Sembrava davvero di trovarsi in un giardino; per non rompere l'incanto, bastava non alzare mai gli occhi verso le lamiere d'acciaio dell'impianto di ventilazione, o il groviglio di fili e lampade che permettevano a quel luogo di esistere sottoterra.

«Così ne ha fatto un giardino», continuai per lui, mentre aggiravamo la piccola pozza d'acqua.
Ridacchiò alle mie conclusioni, e uno storno dal piumaggio maculato volò rapido su un ramo più alto, contrariato.

«Oh, no. Mio nonno era un uomo pratico: lasciò che gli uccelli fossero un po' più liberi, ma non si occupò mai di rendere questo posto gradevole. Era una frivolezza inutile, all'epoca; c'erano gli scontri con i Selvatici cui pensare», chiosò, abbassandosi quando un ramo s'interpose sulla sua strada, «fu mio padre a renderlo un giardino, quando sposò mia madre. Voleva che avesse la sua Corte privata, in cui potesse circondarsi di ciò che restava della bellezza del mondo.»

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