~50~ Fratelli

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Il profumo della Corte mi avvolse, familiare, in un perfetto accordo di lavanda e zagara, di gelsomino e caprifoglio delicato.

L'ampia sala che si apriva ai nostri occhi – un crocevia di scale e gallerie, di porticine e passaggi – ne era impregnata; come in molti luoghi della Corte, infatti, i vecchi pavimenti in vinile erano stati divelti, affinché le piante potessero prosperare secondo il proprio capriccio. E queste, grazie alle luci artificiali e agli impianti d'irrigazione, avevano conquistato un pollice dopo l'altro, soffocando ciò che restava dei vecchi Rifugi con un guanciale di rigogliosa vegetazione.

Non c'era luogo che conoscessi meglio al mondo: per troppo tempo era stata la meta dei miei vagabondaggi, quando sentivo le pareti della Residenza chiudermisi addosso, o quando i rabbuffi di mio fratello m'innervosivano al punto da sentire il bisogno di scagliare qualcosa contro il muro.

Avevo sempre trovato attraente il modo in cui la Corte si schiudeva allo sguardo, quasi con riserbo, rivelando i propri anfratti nascosti soltanto a chi aveva la pazienza di cercarli. Così, quando le giornate sembravano grondare delle aspettative degli altri, mi ritiravo in quel mondo sotterraneo, silenzioso, per esplorarlo in solitudine.

Era stato Gaspar a guidarmi per la prima volta fra quelle gallerie traboccanti di vita, mostrandomi bellezze che qualsiasi vampiro, a quindici anni, avrebbe trovato ammalianti. Ricordavo con lucida chiarezza la prima volta che avevo morso uno degli Artifici della Corte, in quel modo malinconico e un po' amaro con cui si rammenta il primo passo, e anche il secondo, verso una via sbagliata.

Era stato strano bere del sangue che non fosse quello di Elise: mi era parso un tradimento, nauseante e ingiusto. Ero giovane, però; e l'insoddisfazione per la mia fragile Compagna era così bruciante da spingermi a soffocare ogni remora. Così, notte dopo notte avevo continuato a seguire Gaspar, finché il mio legame con lei non si era logorato, come una vecchia corda consumata dai flutti salati del mare.

C'era stato un tempo in cui, da bambini, l'avevo accolta nel mio letto, scostando le coperte e facendole spazio, perché la smettesse di frignare a causa dei tuoni, o del buio, o di un qualunque innocuo scricchiolio. Le parlavo all'orecchio, a bassa voce, stringendole la mano e raccontandole qualsiasi sciocchezza mi passasse per la mente, unicamente perché la mia voce sembrava possedere il potere di acquietarla.

Soltanto a quel punto lei finiva per addormentarsi, i lunghi capelli bruni a solleticarmi il naso, mentre a me non restava che guardarla, respirandone il lieve profumo di gelsomino.

Finché qualche anno dopo, quando si era infilata nel mio letto, le avevo sfilato in silenzio la camicia da notte e mi ero preso un'altra parte di lei, senza la giusta tenerezza, tenendole una mano sulla bocca perché non facesse rumore. Come sempre, Elise mi aveva lasciato fare; non c'era niente, niente che mi avrebbe negato.

Avevo quindici anni, e non c'era più nulla che sapessi gestire. Certo non il desiderio di violenza che mi scorreva nelle vene, né quella frustrazione senza nome che mi avrebbe spinto, negli anni avvenire, a disdegnare le attenzioni della mia Compagna.

Cercai di allontanare quei ricordi amari dalla mente, concentrandomi sulla pelle fredda di Shari, su quanto ci circondava.

I livelli profondi della Corte erano per lo più disabitati; alcune aree venivano utilizzate per la coltura intensiva di certe specie vegetali, con cui la Corte si autoalimentava, mentre altre erano adibite a magazzini.

Imboccai passaggi e corridoi con sicurezza, sorreggendo Shari nel suo passo malfermo e pregando che il calore della Corte, così simile a quello di una serra, bastasse a scongiurare il peggio. Superai diverse porte prima di trovare quella che cercavo; e quando alla fine la riconobbi, mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo. Non appena la spalancai, fummo investiti da una curiosa combinazione di odori: un insieme di polvere, plastica e aria stagnante.

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