~39~ Methodus Pugnandi

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Vauxhall Cross poteva considerarsi, a tutti gli effetti, il centro della grande ragnatela che ormai era la città. Nessun Selvatico dotato di buon senso si sarebbe mai avvicinato a quel luogo; dopotutto, il monumentale edificio in vetro nero e lucido acciaio era il nodo scorsoio che stringeva il cappio attorno alla gola della Londra umana, un cuore maligno e pulsante che ogni giorno pompava in strada centinaia di Cacciatori armati.

Mai avrei sognato di poterlo vedere con i miei occhi, figurarsi attraversarne la soglia accanto alla Compagna del Reggente e a una delle sue Guardie.

Quando due Artifici aprirono le pesanti porte di vetro per lasciarci entrare, impeccabili e austeri nelle loro vesti bianche, le spire della paura mi avvilupparono lo stomaco, comprimendo nervo dopo nervo.

Fu Clarisse ad attraversare per prima l'imponente ingresso, con un incedere impassibile che le invidiai; avvolta nella sua mantella color ardesia e con i capelli bianchi raccolti in uno chignon severo, era la regina di gelo e neve fuggita da un libro di racconti.

L'atrio si apriva su un ambiente moderno e arioso, dove Cacciatori in uniforme calcavano pavimenti di lucente marmo nero. Occhi cremisi si posarono su di noi, per poi volgersi altrove con indifferenza; pochi di loro si soffermarono sul mio volto, sui miei capelli, riconoscendomi per quella che ero.

Sollevai lo sguardo sul centro del vestibolo, dove un drappo ricadeva dal soffitto in morbide onde di velluto, il nero assoluto dello sfondo a esaltare il blu reale dell'iris dei Gotha.

Raggiungemmo uno dei quattro elevatori in vetro che facevano mostra di sé in fondo all'atrio. La Guardia si sfilò con grazia il guanto bianco e posò il palmo sulla superficie, che si aprì accogliendoci all'interno con una luce fredda e asettica.
Quando entrammo, le porte si richiusero senza emettere alcun suono.

«Grazie per aver accettato di accompagnarmi», fece Clarisse, mentre brillanti linee blu attraversavano i vetri, attivando i meccanismi dell'elevatore, «non sopportavo l'idea di venire da sola.»

Nonostante la tensione sul suo viso di porcellana, provò a sorridere.
Cercai di ricambiarla, cacciando indietro i pensieri velenosi e spontanei che erano affiorati a quel commento.
Dov'era, Ambrose?

Quella mattina, mentre mi vestivo in fretta, non ero riuscita a trattenere la curiosità. Clarisse, già pronta e seduta sul letto disfatto, aveva liquidato la questione affermando che il Reggente non aveva potuto abbandonare i propri impegni. Se da una parte ne ero stata lieta, perché mi aveva dato la possibilità di vedere il duello, dall'altra mi era sembrata l'ennesima ingiustizia: Ambrose sapeva quanto Clarisse tenesse a Luc; restarle accanto in un momento tanto delicato sarebbe stato da considerarsi il minimo.

Davvero vuoi fingere di non riconoscere il peso del dovere?

Strinsi le labbra.
A un anno dalla morte di Cami, sentivo ancora i suoi pensieri scorrere nei miei, una seconda coscienza dalla quale non mi era dato di sottrarmi.

Quando la corsa dell'elevatore si arrestò, le porte trasparenti si dischiusero su un corridoio ampio, in cui il nero profondo del pavimento e il bianco accecante delle pareti restituivano un'atmosfera inospitale, sussurrando di rigore e inclemenza.

Talvolta, i muri del corridoio si aprivano in una vetrata scura che permetteva di sbirciare all'interno delle stanze di quel piano, rivelando palestre dove Cacciatori giovanissimi imparavano a schivare coltelli da lancio, nel modo più efficace e brutale possibile: se non erano abbastanza agili da sfuggire al colpo, venivano bruscamente trascinati in fondo alla sala perché non intralciassero gli altri.

Guardai un giovane vampiro mentre premeva il palmo sul ventre insanguinato; non doveva avere neanche tredici anni.

«Alcuni di loro sono trasformati», commentò Clarisse, che aveva notato il mio interesse, «giovani Schiavi del Sangue che la Corte dona al Princeps. Una sorte migliore, credo, di quella che spetta ai più belli.»

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora