~30~ Lascito

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Le dita fulve del Sole si allungavano pigramente sul pavimento e sul copriletto, trattenute a malapena dai pesanti tendaggi di broccato e seta, sistemati affinché il giorno nascente non interrompesse troppo presto il mio sonno.

Era stato Gareth a occuparsene, quando l'alba aveva corroso la cortina di tenebra oltre i vetri della finestra e il peso della stanchezza si era fatto troppo gravoso perché le mie palpebre potessero ancora sostenerlo.

Si era trattenuto a lungo, abbastanza da indurmi a credere che sarebbe rimasto con me per quel che restava della notte, che avrebbe finito per arrendersi al sonno contro quel guanciale sfatto dal quale mi guardava, assorto.

Non era andata così, naturalmente; dopo essersi assicurato che niente avrebbe disturbato il mio riposo aveva lasciato la stanza, scavando un po' di più quel solco nel mio cuore, la traccia della sua assenza.
Una mancanza, talmente naturale da essere un fiordo nella terra.

Mi allungai fra le coperte concedendomi qualche minuto, alla ricerca di quell'incoscienza che sublima il peso dei pensieri in lampi di sogno; ma non riuscii più ad afferrarla e vi rinunciai.
Scostai le coperte affrontando il freddo della stanza quando, più prosaicamente, fu la mancanza di cibo ad avere ragione della mia pigrizia.

Protetta dalla penombra mi accostai all'armadio e individuai i miei vecchi stivali. Non potei impedirmi di trattenere il fiato quando v'infilai la mano, ma il piccolo ciondolo a forma di perla era lì, esattamente dove l'avevo lasciato; lo strinsi fra le dita, freddo e feroce come lo era la mancanza di Cami.
Legai il laccio attorno al collo, e quando ne avvertii il peso familiare contro lo sterno mi parve di tornare finalmente a respirare con rinnovata leggerezza.

Spalancai la porta che conduceva nel salotto pregando che Sara avesse già servito la colazione, e questa era lì, in tutta la sua meraviglia: una cloche d'acciaio teneva in caldo le uova e la pancetta, mentre su un piatto faceva mostra di sé una piccola torre di pane tostato, circondata da marmellate dai colori accesi.
Addentai una fetta di pane e mi accorsi che il salotto era stato riportato al suo splendore originario; niente avrebbe lasciato supporre che fosse stato teatro involontario della rabbia di un vampiro.

Mentre spezzettavo il pane con le dita, intingendolo nella marmellata di agrumi, sentii lo scatto della maniglia in ottone della porta.
Non era necessario alzare lo sguardo per sapere chi fosse. Lui era nell'aria come il suono distorto di una chitarra elettrica, una vibrazione sporca da sentire sul filo delle vertebre.

Quando infine posai gli occhi su di lui, il pane cadde sul piatto, la dolcezza e l'acidità dell'arancia tramutatesi improvvisamente in cenere.
Il primo, sciocco pensiero che mi balenò in mente fu che somigliava terribilmente a un Cacciatore bardato in quel modo, gli abiti neri a renderlo più magro, più spigoloso, più terrificante.
Un pensiero quanto mai ridicolo, appunto, perché quella era la divisa di un Cacciatore.
Una divisa che indossava con la disinvoltura di una seconda pelle.

Quando si accorse della mia presenza, per un attimo ebbe la buonagrazia di mostrarsi imbarazzato; era evidente che avrebbe preferito non incontrarmi, e certamente non in quelle vesti.

«Buongiorno», disse, ricostruendo con invidiabile maestria la maschera della sua sfrontatezza, «non credevo ti saresti svegliata così presto.»

Sebbene non potessi vantare la sua reattività, mi sforzai comunque di trovare la strada per le mie corde vocali.

«Avevo fame», risposi laconica, combattendo contro il bisogno istintivo di allontanare il vassoio. L'odore delle uova si era fatto nauseante, molesto.

Lui si attardò sul pane abbandonato sul piatto, sulla rigidità delle mie spalle. Socchiuse gli occhi.
«Non era mia intenzione rovinarti l'appetito», replicò, pacato.

Dies SanguinisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora