~28~ Increspature

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Oscuro è il decorso del tempo; talvolta sembra scivolare velocemente, quasi fosse rugiada su una foglia sottile che non riesce più a tollerarne il peso, altre invece pare ristagnare e persino addensarsi, come resina d'oro sulle complesse e infinite circonvoluzioni di una corteccia.

Cinque furono i giorni che passai fra le ombre della città sotterranea, là dove coloro che erano stati schiavi nella Corte avevano trovato pietoso asilo, un luogo sospeso fra la crudeltà della Superficie e l'indifferenza dei Rifugi.

Cinque giorni di lenta e insofferente inerzia che misurai nelle tazze di sbiadito alluminio ricolme di quel sangue rubato, nelle lacrime nere che l'umidità continuava a scavare nel muro sopra il mio giaciglio; nelle volte in cui accesero quel piccolo braciere improvvisato, persino, il cui lieve bagliore prometteva un altro tipo di calore, il conforto di un'anima affine con cui parlare.

Pareva quasi essersi contratto, il tempo, in una crasi di eventi ripetuti che avevano finito per confondersi tra loro.

L'assassinio a sangue freddo dei due Artifici mi aveva scosso così tanto che non cercai più la compagnia di Lochan.
Talvolta, quando le luci si spegnevano e il sonno faticava ad arrivare, mi riscoprivo a osservare la sua ombra alta proiettarsi sul muro; e anche se non potevo sentirlo, o vederlo, sapevo che rimestava con indolenza le sue pillole d'oppio, briglie avvelenate per cavalcare i leviatani dei suoi incubi.

Per qualche istante, la tentazione di raggiungerlo mi solleticava; poi, però, il sangue di Suzanne tornava a macchiare il pavimento e allora serravo più forte la presa sulla coperta ruvida e sui miei propositi, rinunciando a quell'assonanza che avevo sentito risuonare nel petto e che chiedeva solo di essere riconosciuta, ancora.

Non avrei saputo dire se Lochan si fosse accorto di quel cambiamento; se l'aveva fatto, comunque aveva deciso d'ignorarlo. Ogni giorno mi raggiungeva e, dopo essersi assicurato che avessi trangugiato senza troppe storie il sangue di vampiro, mi sottoponeva a una serie infinita di domande sui Gotha e su coloro che li circondavano.

All'inizio di quelle sedute, mi aveva considerato la migliore fonte d'informazioni che potesse capitargli.
Dopotutto, una volta sciolto il Giogo di Sangue, cosa m'impediva di aiutare altri Selvatici contro la più potente famiglia di vampiri di Londra?

S'informò sul numero di guardie all'interno della Residenza, sugli Artifici che vi abitavano e sui loro nomi, sulla posizione esatta delle stanze. Mi ritrovai a rispondere sommariamente con quanto ricordavo, ma c'era sempre un'altra domanda che seguiva quella precedente, finché non mi lasciava esausta ed esasperata per passare a interrogare gli Artifici, l'insoddisfazione a disegnare una piega dura nelle sue labbra sottili.

Perché più a fondo scavava, più si rendeva conto che non ero affatto l'ostaggio che aveva sperato quando mi aveva catturata.

La maggior parte delle informazioni che desiderava e che non potevo dargli riguardava gli affari di Gareth con l'esercito del Reggente; nonostante fossi riuscita spesso a curiosare fra i dispacci e i documenti che gli venivano consegnati, non ero mai riuscita a scorgervi altro che resoconti di fatti già avvenuti.

Sospettavo che non si trattasse di un caso: Gareth non era uno sprovveduto, non lo era mai stato, ed era evidente che per quanto desiderasse tenermi al sicuro, non mi aveva mai eletta a depositaria dei suoi segreti come spesso i vampiri facevano con i loro Compagni.

Anche Lochan era stato costretto a giungere alle mie stesse conclusioni, una lieve rigidità nelle spalle e negli avambracci mentre scarabocchiava appunti in un vecchio e consunto taccuino.

Sarebbe stato più semplice, se avessi sentito il nodo del Giogo sciogliersi nel mio petto; una prova fisica e tangibile che i miei sentimenti fossero stati manipolati, qualcosa cui aggrapparsi nelle ore corrose dal dubbio.

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