~51~ Dies Sanguinis [ Parte I ]

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Il sole era basso oltre i vetri della finestra, sporchi per l'ultima, silenziosa pioggia, di cui non era rimasta che un'impalpabile memoria di polvere. Non avrei saputo dire se si trattasse dell'alba o dell'ennesimo, sanguigno tramonto; riuscivo a cogliere soltanto qualche aureo scampolo di luce, e ombre pigre che si allungavano sulle pareti, sul pavimento, stiracchiandosi come randagi rimasti in ozio troppo a lungo.

Prigioniero del mio corpo, languivo in una sonnolenta bruma; una profondità di viscosa angoscia dalla quale non riuscivo a risollevarmi.

Sulla lingua e sul palato indugiava un sapore amaro, chimico, che rievocava l'immagine sfocata del volto di James, la sua espressione di rammarico mentre controllava le mie ferite; e l'Artificio trasognato, dalle movenze languide, cui aveva reciso un polso per costringermi a bere.

Sapevo che quei ricordi appannati avrebbero dovuto suggerirmi qualcosa, e che il tempo scandito dai moti del sole avrebbe dovuto destare orrore; eppure i pensieri mi sfuggivano, illusori e incostanti come barbagli sull'acqua.

Shari sedeva sulla poltrona con un'espressione torva, le labbra un po' imbronciate, rigirandosi fra le dita esili uno dei miei pugnali. «Avresti dovuto lasciarmi in quella foresta», affermò senza guardarmi, mentre la sua voce si velava d'amarezza. «Non hai mai pensato alla mia salvezza, ma solo alla tua. Volevi disfarti dei tuoi incubi con un'azione nobile, ma noi due sappiamo che non ne sei capace. E dunque eccomi qui: un altro fantasma per la tua affollata corte di spettri.»

Mentre parlava strinse il palmo attorno alla lama, con rabbia; ma nessun rivolo di sangue si liberò mai da quella carne inaridita, bruciata. Tentai di sollevarmi dal letto per raggiungerla, per spiegarle, ma il mio corpo non reagì, neppure quando cercai di urlare la mia frustrazione.

«Quante altre volte dovrò morire?» domandò poi Camille, la voce gentile pregna di malinconia. «Quando sarà abbastanza?»

Non c'era alcun rancore nel suo tono, solo quell'infinita tristezza, la stessa che aveva imbevuto le sue parole poco prima di morire.
Gli assassini non piangono.
Tu lo fai.

Spilli arroventati mi trafissero gli occhi, pupille e cornee e nervi, mentre i colori della stanza si riducevano a un unico, doloroso fuoco sanguerame.

Percorrevo un corridoio dal pavimento grigio e dalle pareti nude, macchiate, che restituivano un sentore di tetro squallore. Ignorai le anonime porte d'acciaio che incontrai sul mio cammino, provando un vago fastidio nel riconoscere i bassi gemiti che echeggiavano fra le mura, e i miserabili singhiozzi degli assassini intrappolati nelle tenebre. Presto, comunque, avrebbero smesso di ammorbare l'aria col loro fiato.

Mi fermai soltanto quando fui davanti alla sua cella. Feci per aprirla, inserendo il codice che avrebbe fatto scattare la serratura, quando colsi il mio riflesso sulla superficie metallica.

La forma del mio viso era sfuggente, deformata, ma riconobbi una macchia di sangue sulla mia guancia, di un rosso vivido, violento. Mi ritrovai a scacciarla con un gesto secco, meccanico, perché lei non la vedesse; quando me ne resi conto, rimasi a fissare quella traccia vermiglia sulle dita.

Chiusi gli occhi, li riaprii.
Mio padre sostava sulla soglia della camera, immobile e irraggiungibile, con quell'atteggiamento altero che si era indurito col passare degli anni. Sentivo addosso la sua delusione, il suo disprezzo, il suo amore rancoroso; ma quando voltò le spalle, lasciandomi indietro, colsi il baluginio d'oro dei suoi capelli.

Tentai di fermarlo, di afferrarlo, ma il mio pugno rimase disperatamente vuoto.

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