Uno

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Mi esposi, alzandomi e chinandomi verso il sedile anteriore al mio. Chiusi e riaprì gli occhi. "Raga" pronunciai, "ci vuole il decoder per vedere i colori." Un sottofondo di risate mi accompagnò mentre osservavo il paesaggio campagnolo che si presentava ai miei occhi. Un po' di verde sbiadito accompagnato da una fitta nebbia, umidità e goccioline di rugiada. Mi rimisi a sedere.

"Noi viviamo in pianura padana" commentò Alberto seduto all'altro lato dei sedili. Eravamo nell'ultima fila, quindi una fila da sei posti. Io al lato sinistro, lui al destro. Accarezzai la stoffa bordeaux del sedile, dando anche una toccatina ai capelli liscissimi dell'Anita. "Touché" replicai. Continuai ad avere fra le dita la filigrana mentre la Silvia con quella sua voce acuta replicò: "non abbiamo potuto nemmeno vedere la maxi luna."

"Abbiamo mai visto la luna?" Scoppiai a ridere all'ennesima battuta di Alberto riguardo la nebbia che ci contraddistingueva. Però c'era qualcosa di diverso nel Regno Unito, o meglio nel Galles, dove eravamo temporaneamente finiti per il nostro viaggio della maturità. Cardiff era più grigia, più uggiosa, più nebbiosa, più di quanto il nostro paesaggio nordico poteva essere. Mi sembrava di essere stata catapultata in un film di Tim Burton e quelle due persone che incontrammo per strada mi sembravano essere senza testa.

Forse l'amavo Cardiff.

"Okay" sentimmo pronunciare da una voce metallica: la prof Giovanardi aveva preso il microfono, si era situata all'inizio del corridoio e guardava con gli occhietti semi aperti tutti noi studenti, con quell'aria da malfidata che portava sempre con sé; "giovani teppistelli" ridemmo in coro, in modo forse fin troppo dispregiativo, "non sarà una settimana di divertimento, non farete quello che volete, non scapperete in camere di altri la notte. Abbiamo una scaletta da rispettare e vi giuro su Dio che ve la farò rispettare."

Un sorriso mi comparve sul mio viso rotondeggiante, scostai i capelli neri dal volto per metterli dietro le orecchie e mi morsi le labbra per cercare di non ridere. Ci odiava. Era ovvio e a noi stava bene. "E' come avere fede in Dio" pronunciò Andrea, seduto vicino ad Alberto, "non esiste eppure tu ci credi. Lo stesso paradosso." Inarcai le sopracciglia. "Arguta!" Esclamai ad Andrea che fece una breve risata, presto interrotta dalla Giovanardi che dal microfono ci intimava di chiudere le nostre bocche fino all'arrivo in hotel.

Non lo facemmo, iniziammo fra di noi una gara a chi cantava con la voce più grossa "il pompiere paura non ne ha" finendo a fare un coro da ultras che ci assicurò una probabile nota appena scesi.

Il pullman si arrestò davanti ad una sorta di ostello fatiscente. Il conducente tirò il freno a mano creando il perfetto sound per la bellissima location in cui avremmo alloggiato per i prossimi sette giorni. E mentre il "crick" fastidioso faceva eco nelle nostre orecchio, io attaccai il viso al finestrino, cercando di studiarlo meglio. Folkloristico. Mi piaceva in realtà.

"Com'è che abbiamo speso tutti 'sti soldi per 'sta cacata di hotel?" Scoppiai in una risata fragorosa, piegandomi su me stessa e quasi dando una testata al vetro, quando sentì pronunciare dall'Anita quelle parole. Notai con la coda dell'occhio, il viso della nostra professoressa di matematica che si voltava verso di noi, come se avesse captato qualche parolaccia, seppur era ormai fuori dalla corriera, in strada a contare ogni alunno che scendeva.

Dovemmo scendere anche noi, in fila indiana come i bambini dell'elementari che vanno a spasso insieme alla maestra. Andrea, dietro di me, mi guidava verso l'uscita - perché dovevo probabilmente sembrare ritardata - con le mani sulle mie spalle. "Il pompiere paura non ne ha!" Urlò, poco prima che arrivammo agli scalini e fu nostro dovere di noi altri, di urlare in coro "il pompiere paura non ne ha!"

"Cosa non vi farò passare in Italia" sentì sussurrare dalla Giovanardi. Mi voltai verso di lei, con le sopracciglia aggrottate. Cosa non ti faremo passare noi a Cardiff, pensai. Le mani di Andrea ancora sulle mie spalle mentre andavamo a recuperare il nostro zaino e la nostra valigia supportata da Ryan Air.

L'ostello era in una zona franca, non c'era praticamente nulla se non quell'edificio fatiscente color ramato/marrone, l'erba, la piazzola asfaltata che collegava la strada all'hotel, campi in lontananza. Mi guardai intorno e notai che se la Giovanardi avesse voluto ucciderci, avrebbe potuto farlo benissimo con tutti i complici dalla sua parte. Dalla porta principale a vetro, ne uscì un omino. Un uomo basso, parzialmente pelato con solo delle strisce grigie di capelli al lato della testa, gli occhi tondi e grandi, come i miei, erano coperti da una montatura rettangolare e bianca degli occhiali da vista. Il corpo robusto e torchiato era fasciato da una camicia bianca, un gilet in lana azzurrino, e dei pantaloni color cachi. Mi ricordava un personaggio dei cartoni di cui mi sfuggiva il nome.

"Benvenuti all'hotel Paradiso!" Esclamò in un italiano con la cadenza inglese che mi fece sorridere. La sua voce pareva quasi alticcia ma forse era solo felice di avere dei clienti. Vidi Andrea alzare la mano, con l'indice ben retto e svettante verso il cielo cupo. "Che c'è?" chiese stanco il prof di educazione fisica che accompagnava l'altra quinta nel nostro stesso pullman, la quale ci maledì perché dovettero finire nella parte più avanti della corriera.

"Posso chiedere perché si chiama Paradiso?" Alzò la voce per farsi sentire anche dal signore fermo all'inizio della piazzola. Abbassai la testa per sorridere. "E' bellissimo, non vedi?" pronunciò retorica Silvia, mentre si avvicinava ad Andrea che sistemava gli occhiali rettangolari sul ponte del naso leggermente a patata. Dio, mi stava sul cazzo quella ragazza, non sapevo nemmeno come fossimo riuscite a finire nello stesso gruppo della classe. Eravamo una classe ovviamente divisa per gruppetti e lei doveva finire proprio nel nostro? Tante belle persone, doveva scegliere noi?

Poggiai la testa sulla spalla dell'Anita, piangendo internamente. Sarebbero stati sette giorni bellissimi senza quella testolina riccia castana e fastidiosa. Sentivo già la sua vocetta acuta nelle orecchie mentre sbatteva continuamente le sue ciglia lunghissime e nere e volava con il suo corpo magro e sinuoso di fiore in fiore. Sbuffai leggermente, poggiando la fronte sulla spalla ossuta della mia amica con i capelli finissimi, il fisico a pera, la carnagione olivastra e il viso perfettamente simmetrico.

"Se non vi piace, prendete i vostri soldi e il vostro culo e ve ne potete andare da un'altra parte, no?" Alzai velocemente il viso, guardando dritta davanti a me, fra la quella piccola folla formata dalla scolaresca e corpo docenti, finendo dritto con il mio sguardo da Gollum alla figura slanciata, alla sinistra dell'uomo con il gilet azzurrino.

Una bellissima figura si presentava a me, in tutta la sua forma e parlava anche italiano. Un ragazzo dai capelli castani, sapientemente pettinati, il viso scolpito, le labbra carnose e delicatamente rosee, gli occhi castani, il fisico tonico da indossatore e lo sguardo acido, ci fissava - quasi disgustato - dall'alto in basso, guardando soprattutto Andrea e la Silvia. A me, ovviamente, non mi cagava nemmeno di striscio, ma potei sentire un tonfo al cuore; era sprofondato nelle mie viscere e si era nascosto perché era quasi spaventato di sentire una tale attrazione verso uno sconosciuto.

"Ne abbiamo spesi abbastanza per stare qui, se ce li rimborsate, il nostro culo lo portiamo via."

Guardai Andrea schifata. No, no, no, io da lì non mi muovevo.

The bird has flown awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora