Nove

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Mi ero già appuntata mentalmente di andare a trovare Mike alla reception, ma verso fine pranzo quando stavo mangiando patatine immergendole nella salsa cocktail, lui si piazzò nuovamente dietro di me, facendomi saltare sulla sedia dallo spavento. Mise le mani sulla testata del legno e si abbassò leggermente, sentì il suo petto sfiorare la mia schiena. "Devo aiutare a sparecchiare e pulire i tavoli, poi ci sono. Vieni in camera mia verso le otto, okay?"

Mi voltai velocemente, incontrando il suo volto poco distante dal mio. "Non so dove sia la tua camera" ammisi cercando di parlare, indietreggiando con il collo per aumentare la distanza. Potei cogliere un sorriso sul suo viso per un nano secondo, che fu rimpiazzato subito dalla solita espressione: "ultimo piano, la ventuno. Hai perso la voce?" Annuì, cercando di mantenerla e non sforzare le corde vocali. "Non è bellissimo il silenzio?" Disse, prima di alzarsi e andarsene. Scorsi dell'ironia nella sua frase, forse gli piacevo in maniera minima, almeno, quando non davo fiato alla bocca.

"Forse, non riesco a uscire." Le facce degli altri si girarono verso la mia. "Che?" la voce nasale dell'Anita divenne più acuta, "ci tradisci con lui?" sentì un leggero riso nella sua voce e sorrisi. "Non lo farei mai!" Cercai di alzare il tono ma ottenni solo un rumore di un palloncino che sfiata. "Non so se riesco a prepararmi" confessai, "e non vorrei nemmeno sudare stasera, così domani mattina sono apposto" aggiunsi alla fine. "Tranquilla" mi rassicurò Alberto, con un sorriso confortante. "Dai, domani ti portiamo in un night per rifarci di questa serata mancata" guardai Andrea che mi sorrideva con il suo sorriso da ebete. "Ti schiaffeggio" scherzai mentre mentalmente ringraziavo loro di essere diventati miei amici, non ero sicura fosse possibile incontrare amici migliori di quelli, ero convinta che non ne esistevano altri, che fossero gli unici, perfetti e migliori, e che io, per un colpo di culo, me li ero aggiudicati ed ero riusciti a conoscerli.

Schiacciai il pulsante del sesto piano in ascensore mentre scrivevo un messaggio su Whatsapp a mia madre, utilizzando il wifi dell'hotel paradiso.

"Ma', oggi ti ho chiamata io. Volevo solo sapere se conoscevi un certo Mike e la madre. In ogni caso, ne parliamo quando riesci. Un bacio, buonanotte."

Velocemente scrissi la buonanotte anche a mio fratello Christopher, fisicamente simile a me, solamente più atletico, snello e bello.

Il tintinnio dell'ascensore indicò il mio arrivo. Uscì da esso, osservando la luce calda del lampadario tondo affisso al soffitto fare le bizze. Ogni piano era identico all altro, cambiavano solo i numeri incisi sulle placchette oro appese alle porte.
La stanza numero ventuno era l'ultima a destra. Bussai e la luce sparì per un secondo, per poi tornare come nuova.
Aggrottai la fronte, girandomi e guardando il soffitto. Non sentì la porta aprirsi. "Qualcosa non va?" Sentì dire. Mi voltai velocemente e di soprassalto ed i miei occhi incontrarono un bellissimo ragazzo in una t-shirt bianca, con un braccio, che vidi solo in quel momento, inciso. Una piuma era disegnata sul suo avambraccio, la guardai qualche secondo prima di scuotere la testa, guardarlo negli occhi, e affermare un semplice "no", cercando di scacciare dalla testa l'idea che il blackout millesimale era stato un avvertimento. Qualcuno voleva dirmi di scappare e uscire con gli amici o rinchiudermi in camera mia, stretta sotto le coperte, dove nessuno poteva farmi del male perché sotto le coperte diventi invisibile ai malintenzionati.
Entrai nella sua stanza. Le pareti erano di un color ocra pallido, ma per il resto si presentava uguale alla mia, solo leggermente più grande, decorata e disordinata.
Sulla sedia posta vicino all'armadio bianco c'erano impilati dei vestiti, sul tavolo basso la sua giacca di pelle e dei vassoi con caraffe e tazze sporche, sul pavimento vicino alla porta delle scarpe da ginnastica nere, sul comodino vicino al letto matrimoniale dei preservativi, un pacchetto di sigarette e un paio di accendini, il letto aveva le coperte stropicciate.
"Non vengono le cameriere ai piani da te?" Scherzai, guardandomi intorno. Sulle pareti c'era un piccolo collage di foto.
"No" rispose serissimo.
Bene.
"Allora" battei le mani, cercando di far uscire un tono concitante e allegro, ma la mancanza di voce lo rese impossibile, "parliamo?"
Lui annuì mentre si passava una mano fra i capelli che parevano essere morbidi e setosi come quelli della pubblicità dello shampoo o delle tinte.
"Vuoi da bere?" Chiese, camminando verso il mini frigo. Si inginocchiò e infine voltò il viso verso di me, che ero rimasta nello stesso punto da quando ero entrata. "Sì grazie" replicai, "cos'hai?"
"Acqua, birra e..." lo vidi spostare un paio di birre con la mano, "una lattina per metà bevuta di seven up."
"Prendo quello che prendi tu" dissi accomodante, le mie parole erano dovute solo al disagio altrimenti avrei optato per una decina di birre consecutive.
Prese due birre e si alzò, richiudendo con il piede l'anta. Le stappò con il suo anello, lasciando i tappi sopra il mini frigo e venne da me porgendomi la mia. Lo ringraziai e ne bevvi un sorso.
"Hai un anello che stappa le bottiglie?" Lui annuì mostrandomi la mano ossuta. Un anello di ferro con una rientranza era posto vicino ad un altro anello nero, vagamente simile ad una guarnizione, e ne aveva ancora un altro, un semplice anello tondo e leggermente spesso.
Toccai con la mia mano l'anello utile ad altri scopi, divertita da quella che sarebbe stata l'invenzione del secolo, per poi ritrovarmi a sfiorare la sua pelle ruvida delle mani.

Lui si gettò di sedere sul letto, finendo con la schiena contro la testata bianca morbida del letto. "Siediti" intimò lui ed imbarazzata, lo feci, sedendomi al confine del letto. Mi tolsi, con l'aiuto dei piedi, le scarpe e mi misi a sedere a gambe conserte, lontano da lui che pareva fin troppo bello anche in una situazione rilassata e scomposta come quella. La sua aria disordinata e il suo cipiglio, lo rendevano simile ad uno di quei modelli che rincorrevano la figura da bello e dannato. Lui era così e basta, senza nemmeno provarci.
"Mia madre aspettava la psicologa dell'ospedale e ha incontrato la tua" spiegò senza avvisarmi che avrebbe iniziato a parlare delle cose importanti. "Ho bisogno di sentire tua mamma per sapere come sta la mia" affermò, apparentemente per nulla colpito dalle sue parole, era come una roccia stabile e non malleabile dal tempo o dalle condizioni atmosferiche.
"E non vorrei dirti altro" concluse lui. Mi aveva inconsciamente e consciamente convinta e aveva detto solamente tre parole.
"Mi devi promettere" continuò lui, "di non dire a John quello che hai probabilmente visto."
Inclinai la testa non riuscendo a capire di che cosa stessimo parlando ora e me ne uscì solamente con un "mh?" Confuso.
"Da quello che mi hai detto questa mattina ho capito che mi avrai visto con Shayla" spiegò con naturalezza, "non farne parola con John, con i tuoi professori o con qualcun altro, perché se lo viene a scoprire lui sono cazzi per me e me ne devo tornare in Italia e ora non posso."
Io annuì, "c'è un piccolo problema però" dissi prima di sorseggiare la mia birra bionda, "a me l'ha detto Andrea."
Aspettai a dire ancora qualcosa per ponderare la reazione che avrebbe potuto avere ma non si smosse nemmeno di una virgola quindi continuai: "e insomma, ora i miei amici lo sanno e altre tre persone che non sono così vicine a me ma lo sono per gli altri."
Chiusi gli occhi aspettandomi di dover subire una sfuriata ma sentì solo un "okay" per nulla scosso, "basta che non lo fate sapere a John o ai vostri professori. Prometti?"
Mi misi sulle ginocchia sul letto ed allungai il mignolo verso di lui: "pinky promise."
Il suo mignolo si intrecciò con il mio.

The bird has flown awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora