Due

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"Secondo voi" iniziai, sedendomi nella poltroncina rossa della hall di quello che supponevo fosse un ostello, "è normale sudare quando ho addosso solo una maglietta mentre il padre e il figlio sono vestiti a strati e non sembrano fare una piega?"

"Noemi, puoi sempre spogliarti" consigliò Andrea, sedendosi al mio fianco e, di conseguenza, di fianco a Rosa, un'amica di Silvia che sopportavo leggermente di più di quest'ultima e che, in un modo o nell'altro, volente o nolente, era finita nel nostro gruppetto che alle origini era piuttosto spoglio e a numero limitato. "Ha-ha" falsai una risata, guardandolo. Era un bel ragazzo, per me almeno, alto un metro e ottantotto, fisico da palestrato, essendo che faceva palestra da anni ormai, ma non pompato - punto ovviamente a suo favore -, viso ovale e definito, barbetta in stile capra che ormai ero abituata a vederlo su di lui ma oggettivamente era una cosa che non concepivo, baffetti, labbra piene che quando sorridevano parevano quasi ingenue, occhi grandi e scuri, capelli riccioli e corti. Ci provava con chiunque. Una volta ero andata in palestra dove si allenava e potei constatare con quale determinazione cercava di possedere una nuova vagina.

"Lo sai che mi vuoi bene" commentò divertito, mentre si dilungava verso di me e poggiò la sua testa sul poggiolo della mia poltroncina. Ci poggiai l'avambraccio sopra mentre mi guardavo intorno e non notavo nessuna traccia del dio greco, ma solo alunni della mia scuola e alunni della mia scuola. Era come rivedere lo stesso paesaggio infinite volte ma con sfondi diversi; alle volte un vaso, altre un muro dipinto di bianco, altre un bancone color mogano.

Sospirai. Non ero destinata all'amore e forse per questo per le mie relazioni duravano due giorni. E ne avevo avute due di relazioni.

Mi venne naturale accarezzare la testa leggermente ricciola di Andrea mentre guardavo il gruppetto tutto seduto ad occupare le sedie e le poltrone nella hall. C'era Andrea, c'ero io, c'era l'Anita che annoiata guardava il display del suo lg come se fosse stata ipnotizzata dallo smartphone, c'era Alberto che si grattava la testa, anche la sua riccia, e guardava con fare indifferente il proprio petto piatto sotto il maglioncino blu, c'era Silvia che si arricciava fra le dita i capelli castani tinti di biondo alle punte con lo shatush, Rosa che rideva ad ogni singola cosa che Silvia pronunciava e che si allisciava i capelli di biondo cenere tinti e Alessio, un amico di Andrea e Alberto che conobbi quello stesso giorno con i capelli in stile super sayan sbiadito, che chiedeva ad Alberto che ore fossero dal momento in cui non aveva voglia di tirare fuori dalla tasca della tuta grigia l'iphone oro.

Io continuavo a passare i polpastrelli fra la sua cute mentre buttavo un occhio alla mia pancia gonfia dovuta a tutto quello che mi ero ingurgita mentre aspettavamo l'arrivo dell'aereo in ritardo. Non ero esattamente magra, non lo ero e basta, ma nemmeno grassa, ero quelle vie di mezzo che possono migliorare ma potrebbero anche essere peggio. Aggiustai gli occhiali tondi sul ponte del naso a patata e subito dopo mi coprì le labbra con la mano per evitare di sbadigliare davanti a tutti. Allungai i piedi, indecisa se poggiarli o meno su quel tavolino ricavato da una botte di legno. Scossi la testa a me stessa, meglio di non sembrare da subito la rozza ragazza che ero.

"Secondo voi ce la faranno a darci le camere o dormiremo qui, stasera?" Alberto smise di guardarsi la sua inesistente pancia, per osservarci tutti con il suo viso allungato, dopo aver parlato. La sua voce bassa e per sua natura perennemente annoiata ci fece risvegliare dalla nostra trance. "Io sono piuttosto rilassato, potrei dormirci qui" sbiaciscò Andrea. "Ci credo" replicò Alessio divertito, "qualcuno vuole fare i grattini anche a me?"

"Io amore" replicò con voce languida Alberto che rise da solo per la sua stessa battuta. Non riuscivo nemmeno più a godere a pieno della stupidità della mia compagnia perché una volta scesa dal pullman e andato via l'ormone, sentivo addosso a me un peso, come se stessi trascinando un macigno. Ero come diventata melliflua, un solo guscio di quella che una volta era stata una persona parzialmente vitale, anche la mano si muoveva lentamente e svogliatamente, nemmeno per mia volontà, come guidata da una sorta di meccanismo naturale. Volevo solo chiudere gli occhi, rialzarmi quarantotto ore dopo e ritrovare il mio corpo. Peccato che avrei voluto godermi il Regno Unito, Cardiff, il Galles; non c'ero mai stata.

"SVEGLIA." La voce prepotente della Giovanardi ci fece ritornare alla vita e posizionarci in maniera composta, come dei piccoli militari pronti ad eseguire gli ordini del capitano. Ci guardammo tutti, giusto un secondo, per capire da quando ascoltavano la professoressa di matematica. Ci lanciò le chiavi sull'addome, parlando come un ufficiale autoritario mentre ci spiegava la composizione delle camere: "potreste sceglierle voi" iniziò, "ma ovviamente maschi e femmine non staranno insieme. Quindi sbrigatevi a scegliere, andate in camera, mettete giù le vostre cose, ricomponetevi che fate vomitare, poi scendete che è ora di pranzo."

Bofonchiammo tutti qualcosa, in modo scomposto e senza nessun senso, mentre ci alzavamo e ci passavamo le chiavi, decidendo, quasi silenziosamente, con chi stare. "Noi ci becchiamo la stanza da tre" affermò Alberto. Presero le loro cose, fecero qualche passo prima che Andrea si voltò per dire: "10A". Mi sembrò un linguaggio in codice, la stanchezza stava annebbiando la mia mente, generalmente più sveglia di così. Aggrottai la fronte e mentre guardavo il suo viso solare voltarsi, mi arrivò l'insight, come un dono sceso dal cielo e finito direttamente nella mia scatola cranica: il numero della stanza!

Guardai la chiave nelle mani dell'Anita. Inclinai leggermente la testa per leggere il numero e urlai: "8B" facendo sentire il nostro numero anche a quelli che c'erano morti in quell'ostello colorato e con le luci calde e diffuse ovunque.

Prendemmo l'ascensore, una piccola scatoletta in ferro battuto, con della musica jazz in sottofondo. Arrivammo al secondo piano e un corridoio ricoperto da un tappetto continuo, bordeaux e con ghirigori color oro, ci diede il benvenuto. Alzai il viso, incontrando le pareti nuovamente arancioni e le porte marroni. Percorremmo tutto il corridoio, accorgendoci subito che la camera dei ragazzi era a sinistra del muro, poco più avanti dell'ascensore, mentre la nostra era a fine del corridoio. Sopra alla porta di quella che sarebbe stata la nostra stanza c'era affisso un quadro con un'elegante cornice di color oro. Avvicinandoci scoprimmo che il soggetto del piccolo quadro era un paesaggio desolato: un albero spoglio, della terra secca e un'ombra in lontanza che sembrava quasi fissare il tronco.

"Allegro" commentò l'Anita, la sua voce nasale e femminile era perfetta per la sua persona, la rendeva quasi più bella. La mia era più bassa e maschile e in simbiosi con la mia personalità da maschiaccio.

Lei aprì la porta e dovette dargli un leggero colpo di chiappa affinché si aprisse del tutto. Allungai la mano alla mia destra, appena dentro la stanza, per raggiungere l'interrutore bianco della luce. La luce naturale che proveniva dalle serrande leggermente dischiuse ci dava già un'idea di quello che sarebbe stato il nostro alloggio ma volevamo capire meglio com'era la situazione.

Avevo detto che l'ostello mi piaceva perché folkoristico. Lo avevo pensato e ne ero stata certa anche quando, annoiata, mi ero piazzata nella hall colorata con senso famigliare. In quel momento, non ne ero più tanto convinta.

La chiazza gialla posizionata proprio al centro dei materassi coperti dal copri materasso, mi fece rivedere il mio senso dell'estetica. Mi grattai la fronte, mentre richiudevo con il piede la porta in truciolato. "Fa un po' schifo" espresse sinceramente l'Anita, lasciando il trolley vicino al muro bianco. "Giusto un po'" risposi, finendo per grattarmi il sopracciglio destro.

Oltre ai quattro muri bianchi, la porta e i materassi sporchi, c'era un armadio color bile con l'anta rotta, che si reggeva in piedi grazie ad una posizione perpendicolare strategica, un lampadario in vetro nel centro del muro e...e basta.

"Il bagno?" domandai, andando a tastare ogni muro per capire se ci fosse una porta segreta che ci conduceva ad un bagno mistico e bellissimo. "Ho appurato che non c'è" confermai dopo essermi spalmata contro l'ultima parete. "Ma forse dietro i letti" sussurrai a me stessa, con le scarpe addosso - per assicurarmi di non prendere nessuna malattia - andai sul materasso e piegata leggermente in avanti tastai il muro. "Niente!" Esclamai, lasciando scappare un sospiro dal mio corpo. Avrei voluto solo stendermi e lasciarmi morire ma no, non potevo farlo perché qualcuno aveva pisciato sul mio letto.

"Io vado a fare reclami" pronunciai convinta, scendendo dal materasso, quasi scivolando nel tentativo di fare un saltello elegante. "Ti seguo" replicò lei, "se non muori prima" ironizzò guardandomi quasi cadere. Le amiche dovrebbero aiutarti quando poggi male il piede sul pavimento mattonellato, ma non le migliori amiche, quelle ridono di te e ti prendono in giro noncuranti.

Con camminata da sergente arrivammo alla hall e ci dirigemmo verso il bancone in legno. Non c'era un'anima. Sbuffai guardando la piccola costruzione in legno che doveva tenere le chiavi delle stanze libere e la posta annessa.

La faccia scocciata del ragazzo, ergo bronzo di Riace, mi si piazzo davanti e con voce graffiata e rotta dalla noia pronunciò, "che c'è?"





The bird has flown awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora