Tempesta

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Capitolo otto

Tempesta

Il gattino non la smetteva di muoversi

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Il gattino non la smetteva di muoversi.

Si arrampicava sulle sue braccia come un'edera, pizzicandogli la pelle con le piccole punte delle sue unghiette. Aveva un volto contratto, dipinto di sofferenza, con quel pelo bianco e arruffato che era algido ed etereo: sembrava che qualcuno avesse rubato delle nuvole soffici dal cielo e le avesse ricamate sul corpo gracile di quella creatura, decorandole con due smeraldi azzurri bucati da spilli neri di pupille.

«Shh, ti prego, fa' silenzio» lo supplicò Timothy, mentre i piagnistei dell'animale riecheggiavano fra le pareti della casa. Il micio lo ignorò, parve non ascoltarlo neanche, non badava nemmeno alle braccia con cui Timmy cercava di calmarlo e di cullarlo; si aggrappava, invece, sul suo petto, sui gomiti, tentando di scavalcare la barriera degli arti per sporgersi verso ciò che aveva davanti: una donna giacente su un divano rovinato.

Era assurdo il modo viscerale con cui quel piccolo animale tentava di ricongiungersi alla donna che lo aveva finora solo disprezzato.

I suoi guaiti di dolore, quasi umani, sotto molti aspetti, rimbalzavano fra le pareti; erano il canto di un bambino che richiamava a sé la madre, i dolci conforti che potevano essergli dati solo da mani calde e delicate, da cui venir carezzati prima di addormentarsi.

Ma quella non era una favola e la vita dentro cui loro due si erano intrufolati non era normale. Non lo era la donna che viveva in quel luogo, non la spazzatura che gonfiava di putrido odore l'aria e nemmeno il dormire funereo di Miss Morrison.

Lei giaceva su quel divano, un corpo di ossa e di carne svuotato, con il capo abbandonato sul cuscino interno. Aveva i polsi congiunti, incrociati e legati fra di loro, quasi fossero stati bucati dallo stesso chiodo invisibile che li teneva incollati l'uno all'altro.

Miss Morrison era silenziosa nei suoi respiri, non emetteva rumori, e se qualcuno l'avesse scorta da lontano avrebbe potuto persino pensare di star guardando una sposa innamoratasi della morte.

Con le pupille dilatate, Timothy osservò il corpo che dormiva a pochi metri da lui, lo ridipinse nei suoi occhi, tratteggiandone i contorni con la matita dello sguardo; le punteggiò le lentiggini sul viso – piccoli spruzzi di fragole -, le ricamò le ciocche sgualcite su quel viso pallido e asciutto, analizzandone i filamenti ramati che si intrecciavano fra di loro fino a creare una ragnatela di capelli.

La pelle chiara, quasi trasparente, gli apparve come la più preziosa delle porcellane, sporcata e rovinata dalla noncuranza della sua proprietaria. Scorse la vibrazione spaventata delle palpebre chiuse e la loro decorazione di ciglia che, tremule, ondeggiarono come steli di grano arrossati dallo sguardo del sole.

Miss Morrison non era bella, non era seducente, conservava troppa trascuratezza e odio in quel corpo vissuto per poter apparire in qualche modo affascinante, ma in quelle labbra gonfie di carne incrostata e in quel naso all'insù tempestato da costellazioni di lentiggini risiedeva una stella avvizzita, macchiata dall'inchiostro della vita, che sarebbe potuta diventare splendente se solo qualcuno l'avesse ripulita.

La pioggia prega in autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora