La fragile natura della bellezza

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Ora che ci rifletteva, anche il giorno in cui si erano conosciute era iniziato tutto con uno schiaffo.

Avevano solo sedici anni, a quei tempi, troppi pochi perché potessero davvero esser definite donne mature, ma abbastanza da saper già distinguere il giusto dal proibito, il buono dal cattivo, specie per occhi di falco come quelli di Edith, da sempre abituati a smarrirsi nel buio, condannati per l'eternità a scorgere soltanto il barlume dell'incanto, senza mai, però, farsi pitturare da esso.

«Cos'è per te la bellezza, Edith?» le chiedeva sempre Henry, mentre le insegnava a dipingere e lei imparava a rovinare le sue tele bianche con coltri fumogene, bitorzoli putrefatti di nuvole ingrigite, e oggetti spenti, scoloriti, con dita rugose, corpi deformati e coltelli per sorrisi.

Edith non aveva mai saputo rispondere a quella domanda, nemmeno una volta. Lei, d'altro canto, non l'aveva mai conosciuta, la bellezza; aveva immaginato che fosse nascosta nelle tasche vuote dei bambini dai sorrisi sdentati, o nell'intreccio di dita di una coppia d'amanti, o forse ancora negli universi dei baci che un padre regalava al proprio figlio il giorno del suo compleanno. 

Lei sapeva soltanto cos'era la siccità dell'acquarello che si seccava sulla tela vergine di colori, conosceva unicamente l'aridità di due deplorevoli occhi incapaci di piangere, o la stiratura della curva delle sue emozioni, talmente bollente da render quelle linee piatte e flaccide, infruttuose. 

Dal giorno in cui suo padre aveva fatto le valigie e se n'era andato, i picchi altalenanti dei sentimenti erano scomparsi, la perdita aveva smussato le punte delle montagne gonfie delle sue passioni, e ora a ferire il suo cielo erano i ritagli vuoti delle stelle ingemmate che le avevano sottratto.

Perché non importava quanto mangiasse, quanto cibo lasciasse cadere nello stomaco, il suo ventre avrebbe continuato a restare insoddisfatto, arrogante creatura partorita dall'agonia della fame.

Non importava quanta acqua sorseggiasse, la sabbia incollata alla sua gola non sarebbe mai stata fecondata e innaffiata, avrebbe continuato in eterno a scartavetrarle la carne e farle inghiottire cocci di calce rovente.

Non importava quanto amore ricevesse, i pertugi disseminati nel cuore avrebbero lo stesso proliferato in un nubifragio di vergogne.

E allora Edith aveva provato a rompere la catena di quell'oblio, a spezzare la ruota dell'eterna insoddisfazione: violando le regole, divertendosi a ringhiare contro chi era innocente, o regalandosi molliche d'affetto quando concedeva il proprio corpo a qualche ragazzo. Qualunque cosa, qualunque, sarebbe andata bene.

Aveva scoperto in poco tempo che il sapore della pelle sudata, in qualche modo, acquietava il focolare che le bruciava le radici delle emozioni, l'aiutava a illudersi per qualche istante di non sentirsi più vuota.

Così, quando lo sfregamento dei corpi si trasformava in unione volgare, fine a sé stessa, Edith aveva l'occasione di chiudere gli occhi e fingere, per un solo momento, di esser bella.

E finalmente era in grado di percepire il palpito dell'animo, seppur sintetico. 

A ogni incontro, a ogni ricerca del piacere, si era ritrovata a perdere un pezzo della sua anima, per ottenere in cambio la disillusione di un attimo in cui tornava a brillare e a sentirsi stella, non più borioso ammasso di ossa e di muscoli a cui erano stati disseppelliti i brividi delle sensazioni.

In tutte le occasioni in cui Edith si era concessa a quei corpi sconosciuti, le era quasi parso di poter strappare il velo grigio che la escludeva dal resto del mondo; protendeva le sue mani e lo sfiorava... carezzava soltanto ciò che c'era dall'altra parte, ma era comunque qualcosa, era comunque meglio del vuoto che si portava dentro, e quelle poche briciole che riusciva ad ottenere in punta di dita, le custodiva gelosamente, le indossava nei suoi occhi come gemme di cui farsi vanto.

La pioggia prega in autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora