Trilogia della morte

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Detestava davvero dover compiere quel tragitto, le sembrava di star marciando a sua volta verso la propria lapide, ma non era questo a preoccuparla - in parte, anzi, quel pensiero rasserenava lo scarabocchio dei suoi pensieri -, la preoccupava, pi...

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Detestava davvero dover compiere quel tragitto, le sembrava di star marciando a sua volta verso la propria lapide, ma non era questo a preoccuparla - in parte, anzi, quel pensiero rasserenava lo scarabocchio dei suoi pensieri -, la preoccupava, piuttosto, la consapevolezza di esser diretta in un luogo da cui avrebbe fatto emergere solo le viscere in cancrena della sue memorie.

Eppure proseguì, nonostante i suoi piedi appestassero il biancore liquido della culla di neve e nella sua mente zampillassero paure e tormenti. Edith andò avanti per la sua strada, le mani ingabbiate dentro la fossa delle tasche e il mento reclinato, affogato dentro il colletto piumoso della sua giacca lurida.

Il cimitero era proprio come lo ricordava, nulla era mutato dall'anno scorso o da quelli precedenti. In certe occasioni, si era ritrovata a credere che quel luogo fosse spaccato dal mondo, separato dal tempo e dallo spazio: un'arpa incorruttibile che avrebbe per sempre fatto echeggiare la sinfonia della morte, con le lapidi al posto delle corde e il fruscio del silenzio che le carezzava.

Non aveva portato fiori con sé, non li portava mai, Edith, li aveva sempre trovati di un'ironia squallida: donare a un defunto un bocciolo di corolle che presto sarebbe appassito, quasi a volergli ricordare quant'era accaduto perché le sue spoglie finissero imbottigliate dentro una cassa di legno. 

Lei, semplicemente, entrò là dentro, sorpassò le inferriate d'ingresso e proseguì lungo il viale che sapeva l'avrebbe condotta alla sua tremenda destinazione.

Tre lapidi l'attendevano in quella marmaglia di fantasmi, di cui una vuota, intoccata e smussata, nessun nome o foto a scalfirla, solo una data di morte che era incisa tanto nel marmo quanto nel cuore di Edith.

Si fermò così, lei, di fronte alla trinità della maledizione: rimase ferma e basta, in piedi davanti alla manifestazione del suo più grande incubo.

Non parlò, non disse nulla. Edith aveva fin troppe parole da rivolgere a chi non c'era più, ma mai nessuna sembrava capace di trovare quel tanto di coraggio che bastava per arrampicarsi sul suo corpo e sbranarle la lingua.

Guardò e basta, gli occhi si nutrivano della neve che era andata a lucidare ancor più il lindore di quelle tre morti, e la bocca malferma, rotta da una smorfia che le spezzò anche il respiro sgorgato dal naso.

Come un animale ferito, mugugnò un lamento da cervo cacciato, se non fosse stato che lei era la predatrice di sé stessa, e quelle tombe che le rubavano il cuore la prova più concreta della sua natura da involucro vuoto.

Qualcun altro era passato di lì, prima di lei: erano varie le rose bianche che ora sbocciavano dal terriccio lattiginoso, insieme agli sterpi dell'erba fecondata dal ghiaccio. Giacevano comodamente attorno alle lapidi, boccioli privi dei colori della vita, un po' come le anime per cui stavano piangendo - e forse, chissà, persino come quella di lei.

«Immaginavo ti avrei trovata qui.»

Non sollevò nemmeno lo sguardo, quando udì la voce parlare. Anche lei non era sorpresa da quell'incontro, in parte aveva previsto potesse accadere, sebbene avesse fatto di tutto pur di evitarlo.

La pioggia prega in autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora