L'umanità del mostro (parte due)

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Il viaggio di ritorno lo dedicarono al silenzio.

Nessuno dei due osò parlare, mentre la macchina sfrecciava fra le strade, rovinando le ruote sulla neve ghiacciata e fangosa in cui un po', forse, lui rivedeva Edith.

Lei non parlò mai, labbra sigillate con chiodi arrugginiti, e gambe distese, flemmatiche, davanti a sé, il volto piegato e rivolto oltre il finestrino, per catturare i piccoli sprazzi di mondo che scivolava addosso a loro in fiumi di colori e persone.

Arrivarono in casa di Edith solo dopo un po', ma la pesantezza di quanto accaduto nel negozio gravava ancora sulle spalle di entrambi; era un fantasma che infestava le loro coscienze, che li inseguì fino al soggiorno e oscurò la luce dell'inverno, i candidi miagolii con cui Michelangelo li accolse.

Nemmeno quella creatura vestita di bianco bastò per alleggerire il macigno che appesantiva i respiri di Edith, che le induriva i muscoli, muovendola come una bambola di scheletri. Il micio zampettò attorno alle sue gambe, il musetto una candida nuvola che si avvicinava incuriosita ai giganteschi sacchi portati da Edith. 

«È roba tua» mormorò quest'ultima alla fine, rivolgendosi al gattino. Lui per un istante rimase sospeso in piedi, le zampette agganciate all'orlo della busta, osservò incuriosito il suo interno e poi, con un gesto violento, lo rivoltò a terra. Una cascata di giochi, palle di gomma, peluche e pupazzi si riversò sul pavimento e creò ben presto un lago in cui Michelangelo si tuffò, fra miagolii e fusa entusiaste che assottigliarono la membrana di inquietudine creatasi fra Timmy ed Edith.

Fu un sussurro, un fragile sospiro di luce, quello che inondò gli occhi di Edith quando assistettero a quella visione; fragile fu la dolcezza con cui lo sguardo di cenere inghiottì l'entusiasmo del suo gatto, il tratteggio di un sorriso canuto a fiorirle nelle guance.

Non era normale che a quel mondo esistesse una donna così controversa: terremoto di odio nei momenti di vergogna e canto materno quando dimenticava la sua tristezza.

Era proprio la contrastante binomia della sua essenza a render così difficile l'approccio nei suoi confronti; Timothy la osservò guardare Michelangelo, riscoprendosi ancora una volta sconvolto per la morbidezza che le modellò il viso, una pacatezza che avrebbe dovuto apparire incompatibile con gli scogli e le squame di rabbia da cui era ricoperta, ma che rivelava invece quanto fossero quest'ultimi ad esser fuori posto, e non il contrario.

Di colpo tutta l'agonia vissuta finora, quell'orrenda sensazione di avere lo stomaco avvitato alla gola, scomparve in Timmy, non appena realizzò quanto sciocco fosse stato da parte sua farsi ingannare ancora dalla maschera di mostro che Edith indossava sempre; quando lui sapeva - lo aveva sempre saputo - che in realtà lei non era nient'altro che una donna sola al mondo, spaventata da tutti. Le sue lame di rabbia non erano dovute all'odio, Edith era solo una fragile creatura, proprio come il gattino, abbandonata a sé stessa, che rifiutava sollievo per il terrore di vederselo sottratto prima ancora di poterlo accoccolare nel cuore.

Allora ricordò, Timothy, ricordò la gentilezza che da sempre aveva smosso le sue giornate, l'insegnamento di Patricia tornò a prosperare nella disillusione come bacche scarlatte fruttuose, germogliate dalle spine di un agrifoglio avvizzito.

«Non è un crimine volere essere amati.»

Le parole sbadigliarono quasi, non appena caddero dalla sua bocca, pizzicarono l'aria come se fosse corde del violino più antico, una melodia che tremò nel graffio metallico degli occhi di Edith.

Lei strabuzzò le palpebre per un secondo che rimase sospeso nel tempo, lo guardò con il rammarico di una sposa diventata vedova all'altare - le braccia penzolanti sul busto snello, le mani irrigidite in due pugni raffermi.

La pioggia prega in autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora