Grandine nel petto (parte due)

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Giunse la vigilia di Natale.

Giunse insieme agli strepiti e le grida entusiaste dei bambini, le case decorate da ghirigori di luci che ne inghirlandavano i contorni come preziosa filigrana, le finestre che erano un varco in cui scorgere l'entusiasmo delle famiglie: alberi gonfi di decorazioni, pronti a celare con le loro ombre regali nati per esser scartati.

Giunse con il chiacchiericcio della neve provocato dai passi degli sconosciuti, e con il brivido dell'inverno che sembrava pronto ad ammutolire ogni canto pastorale, ovattando le orecchie dei passanti coi fiocchi di neve. 

La bruma aveva vestito la città e se n'era impossessata, il vento del nord sbocconcellava le strade e ne raggelava l'asfalto col suo alito grumoso, fino a quando, agli occhi di Edith, quel minuscolo spazio di vita, insulso in confronto al resto del mondo, non era apparso come un alveare di brina.

A lei infastidiva tutto ciò, sentiva unicamente i versi emozionati della città in festa, ed essendo sempre stata una donna particolarmente meschina, più volte, durante la giornata, si era scoperta a pregare che d'improvviso l'intero cielo cadesse sul mondo per foderarne i rumori.

Peggio ancora, un'altra consapevolezza era giunta insieme a quella tediosa festività: Timothy non era tornato nella sua terra natale durante le vacanze invernali. Edith ci aveva sperato con tutto il cuore, senza neanche accorgersene - ma erano i suoi occhi a notarlo, ogni volta che la presenza di lui, il suo respiro, a volte persino il suo pensiero, le abbottonava lo spazio fra il dito di una mano e l'altro: una cucitura che pizzicava e s'infiammava non appena veniva sdrucita dallo strappo di un pugno.

Perché la verità era che il suo corpo ricordava ancora quello di Timmy, il calore che lui le aveva scolpito addosso nel fibrillo di un battito; e lei lo sapeva, lo sapeva benissimo che la sua mano si intesseva in quel modo solo perché sperava di poter diventare la culla del viso di lui, della sua morbida guancia. Lo sapeva benissimo che in realtà Timothy le era scivolato così a fondo che ora nemmeno la sua vasca da bagno sarebbe bastata per incalanare a voluta le brame del corpo. Adesso era il suo cuore ad esigere Timmy, in lamenti e latrati che nemmeno la neve là fuori avrebbe potuto azzittire.

Mai, si diceva ogni volta Edith, mai avrebbe permesso di cedere ancora una volta alla trappola.

Per questo, solo per questo, Edith si era sentita morir dentro, quando aveva scoperto che Pandino avrebbe continuato a infestare non solo i sogni ma anche la sua realtà, durante le vacanze invernali.

Che razza di masochista avrebbe mai voluto lavorare - specie per una donna come lei - il giorno della vigilia di Natale?

Aveva provato a farglielo notare, ovviamente, nonostante fosse sempre stata attenta a tenersi a debita distanza da lui, ma tutto ciò che aveva ottenuto da parte di Timmy era stata una risposta tanto semplice quanto irritante:

«Tanto non ho nient'altro da fare.»

Nient'altro da fare un par di palle, aveva pensato lei in italiano, quando con sospetto lo aveva osservato salire su per le scale per continuare a pulire la camera da letto.

«Non ho alcuna intenzione di pagarti gli straordinari, se è questo che speri!» gli aveva urlato contro alla fine, puntandogli la sigaretta appena accesa.

Timmy, a quel punto, si era fermato, le mani già strette attorno a un rotolo di sacchi dell'immondizia.

Il bastardo le aveva sorriso.

Sorriso.

Come se fosse pienamente cosciente del fatto che tutta la vigliaccheria di Edith, la sua lingua avvelenata, non erano nient'altro che una risposta alla paura che lei stava provando da quando l'aveva abbracciata. Come se sapesse quanto l'avesse rotta e poi ricostruita con quella semplice stretta, benché Edith avesse tentato di negargli e negarsi quella consapevolezza in tutti i modi.

La pioggia prega in autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora