52. Claudio

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Tornare a casa è stato un disastro. Niente era come lo ricordavo e nulla è più andato secondo i piani. Era come se tutto quello a cui ero abituato, nel tempo in cui sono mancato, si fosse ristretto e ora facessi fatica a rientrarci.

Da Helsinki avevo imparato un sacco di cose. L'amore per la natura immensa, il contatto con la gente che all'apparenza sembrava fredda ma che così non era, i ritmi lenti e pigri. Avevo imparato ad amare il buio, ma ad attendere con ansia quelle poche ore di sole.

Ero solo, ma la verità è che fin dal primo giorno ho sempre avuto qualcuno accanto.

Era tutto così strano che non mi sembrava vero. Non capivo una parola di quello che dicevano, ma con la pazienza e la perseveranza ho imparato quello che mi serviva per poter lavorare.

Per la prima volta credevo d'aver trovato il mio posto nel mondo. La mia casa.

Ma come tutte le cose belle, prima o poi finiscono.

"Usciamo a cena o restiamo a casa?" mi sento chiedere dalla cucina.

Continuo a guardare fuori dalla finestra. Come se il cielo limpido e azzurro potesse suggerirmi la miglior risposta da dargli. Come se poi ci fosse una risposta giusta!

"Casa" rispondo. Ma il solo pronunciare questa parola mi chiude lo stomaco.

Perché la verità è che questa non è casa. Ma non mi va di prepararmi e rendermi piacevole solo per gli altri. Vorrei tornare a farlo per me stesso e per lui. A casa nostra.

"Sicuro che non vuoi uscire? Magari ti farebbe bene" mi sento chiedere mentre la sua mano si posa alla mia spalla.

"Sicuro" sospiro "Ma se tu vuoi raggiungere gli altri..."

"No. Ho voglia di stare con te". Mi lascia un bacio sulla guancia e poi esce di casa.

Rimango alla finestra fino a quando non lo vedo salire in auto e poi mi lascio cadere sul divano.

Il mio Prima di Mario sebbene fosse piatto e statico era comunque soddisfacente. Ma il Dopo Mario era diventato un vero mortorio. Niente e nessuno mi andava più bene e l'unica persona con cui riuscivo a stare era Ivan. Sembrava accettarmi così com'ero diventato e nonostante avessimo deciso di lasciarci alla mia partenza, al mio ritorno non fece nessuna domanda. Mi ha ridato il mio mazzo di chiavi e tirato fuori le mie vecchie pantofole.

Guardo il soffitto bianco, e sto valutando se sia il caso di ridipingerlo, quando mi torna in mente l'appartamento che avevo da poco finito di arredare con tutte le nostre cose. Ricordo le due tovagliette all'inglese che avevamo preso assieme a una bancarella del mercato. La coperta con le renne, immancabile. La palla di neve con Babbo Natale che mi aveva regalato lui quando siamo partiti per il nostro folle viaggio. Le foto che avevo fatto stampare e che avevo racchiuso in cornici di legno. I fiori freschi che quasi ogni sera riempivano le nostre cene con il loro profumo.

Profumo che in questa casa è dato da un banalissimo deodorante che spruzza la sua essenza ogni volta che ci passi davanti.

Mi guardo attorno. Niente mi appartiene e niente mi rappresenta. Ma sono qui lo stesso.

Non so cosa fare, combattuto tra quello che voglio e quello che posso avere.

Non l'ho più cercato, ho sperato che una volta atterrato almeno lui mi chiamasse, ma avrei dovuto immaginare che Mario non è tipo da gesti plateali.

Aveva una lingua lunga e biforcuta, ma quando era arrivato il momento di aprire del tutto il suo cuore, era come se tutta la sua spavalderia avesse battuto in ritirata.

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