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Mi sveglio credendo di essere di nuovo a casa mia, ed invece le lenzuola grigie sono le stesse della notte scorsa, dell'incubo che si trasforma sempre più velocemente in realtà, nella mia realtà.
E credo di essermi svegliata con il sole che finalmente torna da me, dopo avermi abbandonata per una notte intera tra le braccia odiose di un uomo che non può più essere chiamato così, ed invece è solo Roger, che mi sta scuotendo per un braccio, affinché io apra gli occhi.
Il suo viso è ancora più terribile di quello della notte passata, perché ha riacquistato la normalità, gli occhi sono di nuovo azzurri e la fronte è liscia come non mai, e questa normalità mi terrorizza ancora più della sua rabbia, perché potrebbe nascondere ogni cosa, dopo aver nascosto quel terribile mostro.

«Golden», mi chiama, ma io non sopporto più il mio nome, io non sono più Golden, non per lui, non per nessun altro.
Io sono morta, è questo che sono, e vorrei esserlo anche per gli altri.
«Svegliati», continua, con il suo tono severo.
I miei occhi sono aperti, ma a quanto pare a lui non basta.
Cosa dovrei fare?
Alzarmi come se niente fosse e pregarlo di riaccompagnarmi a casa?
Non voglio più tornare in quella casa, voglio solo scomparire dal mondo.
Allunga le braccia verso di me e temo che voglia ricominciare tutto daccapo, invece mi solleva soltanto, fino a farmi sedere, poi si alza dal letto e raccoglie qualcosa dal pavimento.
Me lo tira addosso e capisco essere il mio abito, perché no, non mi sbagliavo, sono ancora nuda.
Roger invece si è già rimesso i pantaloni e sta per uscire dalla stanza.
«Non ti consiglio di tornare dai tuoi, non con quella faccia, puoi restare qui, ma non per sempre», mi informa, prima di richiudersi la porta alle spalle.
Mi porto le mani al viso, prima ancora di essermi vestita, e sento che mi fa male ovunque.
La fronte, le tempie, il mento.
Non ho il coraggio di guardarmi allo specchio.
Riafferro il vestito e me lo infilo, ma non riesco a chiuderlo completamente, perché ho male ad un braccio, devo aver dormito in una posizione scomoda.

Cerco le mie scarpe ma non le trovo, e quando mi piego in avanti sento la testa ovattarsi.
Le mie gambe sono indolenzite e tutto in me sta invecchiando prima del tempo, sta avvizzendo come un fiore al quale è stata tolta l'acqua, o peggio, la linfa vitale.
Non so cosa fare.
Volevo che tutto questo finisse il prima possibile e, adesso che è finito, non vorrei altro che non fosse mai accaduto.

Vorrei andare da Roger, picchiarlo a sangue, ucciderlo.
Vorrei tornare a casa e ricominciare tutto da capo, senza dover dare spiegazioni ai miei genitori.
Vorrei guardarmi allo specchio e vedere che i danni non sono poi così terribili come credo.
Vorrei poter svanire nell'aria, diventare invisibile, ma non per ciò che è accaduto, bensì per ciò che accadrà.
Sono le conseguenze di tutto questo che mi spaventano.
Cosa ne farò di me adesso?
Come potrò nascondere ciò che è accaduto a me stessa, prima ancora che agli altri?
Ma devo pur fare qualcosa.
Mi alzo dal letto ed esco da questa stanza dipinta di dolore.

Il piccolo corridoio è illuminato a giorno dalle lampade sul soffitto.
Non so dove sia Roger, e non voglio neanche saperlo.
Cerco soltanto il bagno, voglio togliermi di dosso ogni cosa, le impronte di Roger, i suoi baci, le sue parole, e il mio senso di inadeguatezza rivolto a questa vita.
Quando lo trovo vado subito verso la doccia, mi sfilo l'abito, evitando lo specchio, e poi mi metto sotto l'acqua bollente.
Mi brucia la pelle, ma è un dolore che sopporto volentieri, se potrà togliere dal mio corpo ogni traccia di quell'essere che per più di un mese ho chiamato uomo.
Dopo la doccia mi avvolgo in un asciugamano e resto per non so quanto tempo seduta sul pavimento fresco del bagno.

Le piastrelle marroni sono lucide, le pareti di un beige quasi dorato, il lavandino con il piano di marmo rosa e lo specchio con una cornice dorata piena di rilievi, una stanza carica di luce, nonostante l'assenza di una finestra, che mi impedisce di rendermi conto del trascorrere delle ore.
Forse passano giorni, o così vorrei, in modo da potermi risvegliare solo quando avrò capito che anche questo può essere superato, ma al momento non riesco proprio a concepire il modo in cui una cosa del genere possa essere superata.
Il mondo ha appena cambiato faccia, ed io non lo riconosco più, non so più da quale dettaglio ripartire, che particolare cercare, quale aspetto familiare è rimasto? Ma ne è davvero rimasto uno?
Prima era bianco, adesso è nero.
Cosa c'è di simile?
Nulla, lo so, ma vorrei tanto credere diversamente, così da sapere almeno da dove ricominciare.
Decido di alzarmi in piedi quando sento la barca ondeggiare e poi dei passi avvicinarsi.
So che è Roger, e d'istinto vado verso la porta e la chiudo a chiave, ricordandomi di come una serratura possa essere allo stesso tempo il mezzo di salvezza o l'accessorio indispensabile di una prigione.

Roger cerca di aprire la porta e quando la trova chiusa capisce che ci sono io dietro, mentre io mi rendo conto del fatto che prima o poi dovrò uscire, o almeno così credo, e non ci sono vie di fuga, oltre alla porta.
«Golden?», mi chiama.
«Golden apri», continua, dopo aver dato una leggera spinta alla porta.
Mi rintano in un angolo e spero che la serratura sia abbastanza robusta.
«Golden, esci da là dentro», ogni volta che lo sento pronunciare il mio nome è come se lettera per lettera si staccasse da me.
Un nome che esce dalla labbra di Roger come un nome qualunque non può appartenermi, io non sono una delle sue "amiche", come le chiamava la mamma, anzi, non avrei mai voluto esserlo.
Lo sono diventata, lo so mamma, me lo avevi detto, ma neanche tu potevi sapere fino a che punto si sarebbe spinto, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace...
Decido in questo momento che nessuno dovrà mai venirlo a sapere.
Nessuno.
Ed io dovrò dimenticarlo.
Non avrei mai il coraggio di dirlo ai miei.
Mi odierebbero, non più di quanto mi odi io stessa, ma il loro disprezzo basterebbe ugualmente a rendermi ancora più confusa e abbattuta.
«Golden, non devi avere paura», ed ecco, un'altra lettera parte dal mio corpo e se ne va.
Non la vedo, ma la immagino svolazzare come una nota su di un pentagramma, uno di quei bei spartiti che suonavo pur di cercare un modo per attirare l'attenzione di mia madre, pur di essere riconosciuta, da lei.
La lettera vola, senza lasciare un eco, sembra piuttosto il suono sordo di qualcosa che cade e dovrebbe far rumore, ma non lo fa.

«Golden, esci di lì o butto giù la porta! Non ti toccheró più, quindi esci!», mi ordina, iniziando a colpire la porta in legno con più forza, fino a farla vibrare, proprio come i miei arti.
«Golden!», urla in fine, ancor più stizzito.
E l'ultima lettera del mio nome svanisce nell'aria, invisibile come colei che la assorbe.
Mi alzo e vado verso la porta.
Sono davvero obbligata a farlo?
Ha detto che... non si ripeterà.
Ma perché credergli, quando ha detto anche di volermi sposare?
Alzo la mano sinistra e c'è ancora l'anello che mi ha regalato.
E questo?
Cosa me ne faccio adesso?
Vorrei buttarlo, distruggerlo come lui ha distrutto me, illudendomi, ed invece lo tengo, privandolo di ogni suo significato e vestendolo della sua unica virtù, il valore in moneta.
Ed ora è quasi una ripicca.
Respiro e mi rivesto, in fine apro la porta.
Non appena mi vede mi afferra per un braccio e mi scansa, mentre io temo che tutto possa tornare.
Entra nel bagno e va verso il lavandino, mentre io mi ritrovo in cucina.
Il mio viso si riflette sugli sportelli in acciaio del frigorifero e spero che nella realtà sia meno peggio di come sembra.

Corro verso lo specchio che avevo visto nel salotto e mi accorgo del livido che ho sotto l'occhio destro e di quello sullo zigomo, non sono ancora in fase di guarigione e aveva ragione Roger, questa mattina, quando mi ha detto di non tornare a casa così.
Devo chiamare i miei, avvisarli, inventarmi qualcosa.
Vado alla ricerca della mia borsetta e quando la trovo afferro il cellulare, e chiamo casa.
Risponde Carla, la colf.

«Dì ai miei genitori che starò fuori, per qualche giorno...», le dico, mentre rifletto su quanto ci potrà volere per guarire completamente.
«Quattro o cinque, forse di più...», aggiungo.
«Va bene, signorina», risponde lei, «non devo dire dove andrà?», continua.
«No, non ce n'è bisogno», mi affretto ad aggiungere.
«Come vuole».
Almeno una cosa è fatta.
Roger entra nella stanza velocemente.
«Io non ci sarò, per qualche giorno», mi avvisa, con una borsa in mano.
Non gli rispondo, non saprei cosa dirgli.

Mi osserva un'ultima volta, con soddisfazione, e poi se ne va, lasciandomi sola, o meglio, lasciando un nessuno che anela ardentemente poter tornare ad essere qualcuno.

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L'episodio inizia piano piano a divenire passato, ma Golden non ha ancora trovato la forza per affrontarlo. È spaesata e ha terribilmente paura di ciò che potrebbero pensare gli altri di tutto questo, di ciò che penserebbero i suoi...
Tanti baci DREAMERS... 1585 😘😘😘😘😘😘😘😘

GOLDEN-quella sera le nuvole trattennero le lacrime.         WATTYS2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora