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Non so cosa sia accaduto poi.
Ho chiuso gli occhi, per quella che ho sperato essere l'ultima volta, ma così non è stato.
Fisso il soffitto della mia camera, nel letto della suite, avvolta dalle coperte marroni.
Qualcuno apre la porta.
Vedo il suo volto familiare avvicinarsi.

«Hei», sospira Christian, entrando nella stanza.
Si avvicina al letto.
Mi osserva preoccupato e allo stesso tempo sollevato dal fatto che io abbia aperto gli occhi.
«Come stai?», domanda, sedendosi al mio fianco.
Il materasso si abbassa sotto il suo peso, ed un brivido mi percuote il busto, ricordandomi di una notte terribile in cui morii.
Lo osservo.
Sembra così uguale... a sé stesso.
Eppure non l'ho mai visto così ansioso, o... rabbioso, di una rabbia che non porta altro che tristezza.
Non so cosa rispondere.
E anche se lo sapessi, non gli risponderei.

Non voglio che stia con me.
Voglio che se ne vada.

Ho ancora la nausea, e mi sento girare la testa al solo pensiero di cosa è accaduto ieri sera, e di cosa sarebbe potuto accadere, se Christian non fosse arrivato in tempo.
Ma poi non ricordo.
Anche lui ha visto il mostro.
Eppure non ricordo quando mi ha presa con sé.
E dubito persino che lo abbia fatto.
Come posso dubitarne?
Tutti mi portano con sé, dopo aver visto il mostro...
Non mi importa.
Non mi importa più di nulla.
Voglio che se ne vada, e che per una volta, gli altri, si decidano a lasciarmi morire in pace, senza il loro aiuto.
«Golden...», sospira ancora, e la sua voce è tagliente, per quanto triste.
«Non mi importa Golden, non cambia nulla, quello che provo per te non è cambiato... sono solo pieno di rabbia, e di odio, e se solo sapessi il suo nome... Ti assicuro che adesso non sarei qui!», il suo sguardo si fissa nei miei occhi, e ho la certezza che non sia mai stato così sincero.
Eppure non riesco.
Non ci riesco.
Non riesco ad evitare di vedere le ombre.
I brividi non mi abbandonano.
E non so più quale sia il rimedio.
«Hai paura di me?», mi domanda Christian, di nuovo, improvvisamente spaventato dalla possibilità, e al contempo scoraggiato.
Non lo so più.
O forse non l'ho mai saputo, neanche ieri mattina, quando gli dissi di no.
È così lontana ieri mattina...
Il ricordo più felice della mia vita si è trasformato in quello più doloroso, è bastato un istante, un gesto, un uomo e tutto è tornato come prima.
E tutto è ancor peggio di prima.
I sogni che avevano avuto la possibilità di esistere ieri, oggi sono solo ceneri, carboni inutili nel fondo del buco in cui un giorno c'era un cuore.
Il mio.
E non so più nulla.
Nulla.
Non mi fido più di Christian.
Credevo di aver superato almeno un po' le mie paure, ed invece mi sento ancora più male di prima.
Come se mi avessero dato le ali per volare, e mi avessero insegnato a farlo. Come se mi avessero mostrato la bellezza del cielo e delle nuvole, la maestosità del mondo visto dall'alto. Come se mi avessero fatto assaporare la leggerezza dell'aria e il suo inconsistente sapore. Come se mi avessero fatto affezionare al suo fresco odore. Sì, hanno fatto tutto questo. Ma io non mi sono mai accorta che prima ancora mi avevano stretto spesse catene al collo. Catene che proprio quando raggiungo il punto più alto del cielo vengono tirate così da scaraventarmi al suolo, così da impedirmi di andare ancora più in alto, così da riportarmi nell'abisso del nulla di cui sono ormai cucita.
Ed io non so più cosa fare, cosa serva, cosa sia più utile per me e per gli altri.
Come posso fidarmi ancora degli uomini, dopo l'ennesimo strattone a quella catena? Dopo l'ennesima caduta? Come posso ancora voler volare?
Non lo so.
È questa la risposta.

Non so più nulla.
Ed il senso di tutto questo è lontano da me più di ogni altra cosa al mondo.
«Non so cosa significa...», inizio a dire, con la voce che si spezza, «...vivere», aggiungo, prima di richiudere gli occhi.
Christian respira acanto a me, sento il suo sguardo sul mio viso.
«Non significa nulla, se per nulla intendi tutto», risponde, accennando ad un sorriso, lo capisco da come cambia la sua voce.
Si stende accanto a me.
«Hai paura delle mie mani?», continua, senza capire che non lo so.
Non lo so se ho paura di lui o delle sue mani!
Non rispondo.
Le sento corrermi lungo le braccia.
E sento le braccia volersi avvicinare a loro, ed allora forse no, non le temo.
Corrono fino al polso.
Lo afferrano.
Apro gli occhi.
Christian mi bacia le mani, prima di portarsele sui fianchi.
Si avvicina di più a me e mi abbraccia.
«Sei troppo bella, Golden, per essere triste, per meritare questo...», sussurra, mentre inspira l'odore dei miei capelli.
«Vorrei davvero che tu fossi felice, e lo voglio più di ogni altra cosa, talmente tanto che mi sento morire ogni volta che piangi, ogni volta che abbassi lo sguardo delusa o rattristata, e non mi sento morire come se la vita mi stesse scivolando tra le mani, come acqua, no... mi sento morire come se la vita mi venisse strappata di dosso, come se mi stessero staccando la pelle, e non ci fosse modo per sentire meno freddo», mi spiega, senza allontanarsi, continuando a sussurrare, con una voce ad ogni lettera più profonda.
Ed è la sua voce a darmi i brividi, questa volta.
Brividi nuovi, ma assurdamente e indicibilmente piacevoli.
«Ho bisogno che tu sia felice», conclude, prima di stringermi ancora di più a sé.
Il calore del suo corpo mi porta in uno stato di strano torpore, non ho più la forza neanche di tirarmi indietro.
«Ho bisogno di essere felice», annuisco io, tenendo gli occhi chiusi.
Ma non credo che i desideri vengano soddisfatti, soprattutto quando sono così importanti da diventare bisogni.

«Ed io non ti basto?», domanda, e so che non potrebbe essere più serio.
So che non aspetta altro che una risposta, il permesso, prima di potersi prendere cura di me.
Sì, sì che mi basta.
Ma non è sufficiente dire questo, perché Christian è anche troppo per me, e con cosa compenserò il troppo?
Non ho io abbastanza da dargli.

«Christian», lo chiamo, prima che la stanchezza mi si faccia di nuovo vicina.
«Sì», il suo respiro è sulla mia nuca.
«Raccontami una storia», ripeto, mentre sento le sue labbra allargarsi in un sorriso, posa un bacio delicato sul mio collo.
Mi accarezza i capelli, ed inizia a passarci le mani in mezzo, come a volerli pettinare.
«Avevo sette anni, eravamo andati a trovare la nonna per Natale. Si riunivano sempre tutti i parenti per il giorno di Natale. La casa della nonna era enorme, io amavo giocare a nascondino con i miei cugini, figli dei fratelli di mio padre. Non eravamo troppo vivaci, e la nostra presenza si notava appena durante i pranzi o le cene.

Il giorno della vigilia, mentre gli adulti giocavano a carte, io e i miei quattro cugini decidemmo di organizzare una partita a nascondino memorabile, mentre io dentro di me, decidevo che sarebbe stata anche l'intera giornata memorabile, e non solo la nostra partita.
Sapevo già dove nascondermi. Nel corridoio che portava alla sala da pranzo c'era un grande specchio, che in realtà era una porta, l'avevo scoperto un pomeriggio.
Anzi, in realtà me lo aveva mostrato mio nonno, dietro c'era un piccolo corridoio secondario che portava al seminterrato.
Sapevo che nessuno lì mi avrebbe trovato.
E nessuno mi trovò infatti.
Ma nessuno se ne preoccupò.
Vidi i miei cugini continuare a giocare senza di me, credendo me ne fossi andato, non preoccupandosi del perché.
Ma ancor peggio, vedevo gli zii e gli amici degli zii passare davanti allo specchio, e non vedere altro che i loro riflessi.
Alcuni si fermavano anche, si sistemavano gli abiti, i capelli o il trucco, ma nessuno vedeva me.
Ed ero lì dietro, se solo avessero fatto meno attenzione a loro stessi e si fossero concentrati su ciò che il vetro nascondeva, mi avrebbero visto benissimo.
Non si accorsero della mia assenza per il resto del pomeriggio.

Solo all'ora di cena iniziarono a preoccuparsi.
Poi passò di lì mia madre.
E non si specchiò.
Ma vide me.
Aprì la porta e mi fece uscire.
Mi abbracciò e sgridò al contempo, mentre le brillavano gli occhi.
Io ero mezzo congelato, ma ero felice che a ritrovarmi fosse stata lei.
E capii che gli occhi non vedono nulla di diverso da ciò che vede il cuore.
Mia madre mi ha sempre portato con sé, mi avrebbe ritrovato ovunque, visto ovunque, mia madre non voleva vedere se stessa, ma me.
E così mi ha visto.
Con gli anni ho poi capito che è sempre così.
Vediamo solo ciò che vogliamo vedere, perché non abbiamo il coraggio di ammettere di esserci sbagliati, e non vogliamo neanche credere di poter sbagliare, perché per noi la verità è soltanto una, e non siamo disposti a lasciare spazio al resto del mondo, al resto della vita, al resto e basta.
Ci accontentiamo del nostro, mentre tutto ciò che non ci riguarda, non serve.
Ed invece c'è molto di più in ciò in cui non crediamo, che in ciò che sappiamo già essere in noi», ho perso qualche parola, sono scivolata più volte nel sonno, ma non ho mai dimenticato che stesse parlando ancora con me, che mi stesse cullando.
«Non credo di aver capito», ammetto, con l'ultimo briciolo di lucidità rimastami in corpo.
«Devi avere il coraggio di cambiare idea, nessuno ti farà più del male, perché se qualcuno si azzarda anche solo ad avvicinarsi a te senza che tu lo voglia, giuro che questa volta non tornerà più a casa...».

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Non trovate che le storie di Christian siano😍😍😍😍😍?
Mancano una decina di capitoli alla fine DREAMERS e molte cose devono ancora cambiare, state attenti!😏😌
E intanto 1680 baci tutti per voi, che mi avete accompagnata nella pubblicazione della storia😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘

GOLDEN-quella sera le nuvole trattennero le lacrime.         WATTYS2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora