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Non serviva che fossero i medici a dirmelo, sapevo già di aver perso mio figlio, e con lui l'unico motivo per vivere, se mai ce ne fosse stato uno.
Mi sento in colpa.
Non l'avevo mai amato fino in fondo, ma non ero neanche stata in grado di ucciderlo...
Mai, fino ad ora, perché alla fine l'ho fatto.
Mio figlio è morto.

Non riesco a piangere, né a gioire, perché quando tutto perde un senso, inizi a dubitare persino di te stesso, e ti domandi se davvero si possa essere qualcosa, o qualcuno.
Ma forse non serve neanche domandarselo, la risposta è davanti a noi, ci colpisce ogni giorno, e noi, ogni giorno, abbiamo la sfrontatezza, o forse il coraggio, di ignorarla.
Non si può essere nulla, in questa vita.
Non si può essere buoni, senza diventare cattivi, o senza esserlo stati, e non si può essere cattivi senza essere stati buoni, o senza diventarlo.
Non si può essere soli, se non si è stati insieme o non lo si sarà, e non si può essere insieme, se non si è stati soli o non lo si diventerà.
Spero solo che ciò valga anche per la felicità.
Probabilmente però ho già sfruttato la mia dose di felicità durante l'infanzia.
Ma sono davvero mai stata felice?

È estate, il sole splende fuori dalle finestre ed il giardino mi invita ad uscire, a giocare con l'erba, con le farfalle, con le coccinelle, ma io non riesco a muovermi.
Mia madre non mi parla da più di una settimana, ed io ho paura di averla persa per sempre.
L'ultima volta abbiamo litigato.
Dovevo indossare l'abito di tulle che lei aveva scelto per me, ma il verde acido della sua stoffa non mi piaceva affatto, mi faceva sembrare stupida.
Avrei dovuto mostrarlo a tutti durante la festa di papà, la sera stessa, ma io non volevo uscire con quell'abito.
Lo strappai.
La gonna si divise in due e la mamma gridò, portandosi le mani ai capelli, spalancando gli occhi come se fosse appena stata morsa dal lupo cattivo.
Ed è così che mi sono sentita, cattiva, ma non volevo uscire di casa con quel vestito.
La mamma mi ha dato uno schiaffo, la mia testa si è piegata di lato, e le lacrime mi hanno rigato le guance.
Se ne è andata, chiudendomi a chiave nella stanza.
Ho pianto per tutta la sera, osservandola discutere con gli ospiti dalle finestre della mia camera.

Quando se ne sono andati tutti ho aspettato che venisse da me, che mi perdonasse, che facessimo pace, ed invece è arrivato solo mio padre, mi ha dato un bacio sulla fronte e poi mi ha lasciata sola, di nuovo, nel buio della notte.
Ho scritto un biglietto alla mamma, con un disegno di noi due, le ho chiesto scusa, ma lei non mi parla comunque.
Forse non mi perdonerà più, forse non mi vuole più bene, forse non me ne ha mai voluto.
Ho sofferto a lungo per quell'accaduto, e neanche dopo la pace con la mamma, conquistata grazie a papà dopo quasi due settimane, sono riuscita a dimenticare.

E non credo che certi avvenimenti possano rendere l'infanzia di una bambina di otto anni felice.
Mi rimettono lo stesso giorno, Di Lauro mi riaccompagna a casa, ma io non lo faccio entrare.
«Non puoi restare sola», mi rimprovera.
«Non sono sola, e adesso vattene», gli richiudo la porta in faccia e spero non si faccia più vedere.
Passo giorni, in questo appartamento, tra l'afa estiva e l'aria invernale della notte.
Muoio ogni giorno al calar del buio, e ogni giorno, al sorgere del sole, trovo più difficile tornare a vivere.
Tornare a casa sarebbe un altro errore che si andrebbe ad aggiungere a quelli già commessi, e non voglio più pentirmi delle mie scelte.
Mia madre ha continuato a chiamarmi ed io non le ho più risposto.
Mio padre invece mi manda dei messaggi, a volte, chiedendomi come sto, se può venire a trovarmi, o se mi sento meglio e sono pronta a tornare, perché loro mi aspettano, ai quali rispondo per monosillabi.
E le cose non fanno che peggiorare.
In meno di tre mesi mi ritrovo in mezzo alla strada.
Non sono riuscita a trovare un lavoro, o meglio, a fidarmi di qualcuno, non ho più soldi e la caparra che avevo dato al proprietario di casa bastava per soli due mesi, però, considerando che glielo avevo arredato mi ha permesso di restare per altre tre settimane.
Speravo di trovare qualcosa da fare, ed invece mi sento talmente legata al nulla, che ormai, ogni altra cosa mi spaventa.
Non so dove andare.
Ma a casa non ritorno, non in questo stato, anche se probabilmente ora mia madre mi riaccoglierebbe a braccia aperte, non avendo più mio figlio.
Ho venduto persino l'anello di Roger, ma non ho guadagnato più di mille euro, e non potevo utilizzare questi soldi per pagare l'affitto, o non avrei potuto comperarmi da mangiare.
Le due valigie che avevo sono solo un peso, non so dove metterle.
Prendo un borsone, ci metto dentro il necessario per sopravvivere, una spazzola, uno specchio, del profumo e i vestiti pesanti che di notte mi serviranno sicuramente, si sta avvicinando il freddo ed io non ho nient'altro per riscaldarmi, e un paio di scarpe comode.
Abbandono le valige accanto ad un cassonetto.
Persino mangiando in un fast food, in poco più di un mese ho quasi finito i soldi, e quando li avrò finiti non avrò davvero più nulla.
Più di una volta, di notte, ho avuto paura di essere trovata da altri come me, di essere derubata persino dei vestiti.
E spesso non dormo.
Di giorno sono stanca ed ormai non ricordo più neanche come si fa a camminare in modo decente.
Le persone mi guardano con disprezzo, ed ormai capisco che non c'è più modo di ritrovare la strada per tornare ad essere la Golden di prima.
Forse dovrei persino cambiare nome...

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Io sto ancora cercando di digerire il pranzo... Voi? Festeggiate tutti la Pasqua?🤔❤

E tornando a Golden, la sua vista sta cambiando nuovamente e totalmente. Cosa ve ne sembra? La storia vi piace? Dovrei continuare? Fatemi sentire i vostri pensieri DREAMERS, mi servono per andare avanti, altrimenti mi assalgono i dubbi e ho la tentazione di stoppare tutto🙄
Quindi commentateeeeee!!!!
Intanto vi lascio i miei e 170 baci😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘

GOLDEN-quella sera le nuvole trattennero le lacrime.         WATTYS2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora