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Sì, sarebbe bello, dopo aver visto la luce, riuscire a credere che possa guarire ogni cosa.
Ci sono riuscita, per un istante, ma poi è tornato il buio, e a meno che io non riesca davvero a demolire ogni parte della mia prigione, la luce non sarà mai abbastanza forte da durare per sempre.
Ma forse non lo sarà mai, nessun tipo di luce, forte abbastanza da poter essere per sempre.
Nulla è per sempre.
Anche se è così bella l'illusione dell'eternità.
Qualcosa che non finisce in un mondo destinato a morire ogni giorno.
Troppo bella.
Così bella che farei meglio a convincermi il prima possibile della sua inesistenza.

Torno in ufficio con Fred, il giorno seguente.
C'è lo stesso via vai di ieri, e Fred mi lascia di nuovo sola dopo pochi minuti.
Ma ormai sono abituata alla solitudine, e mi piace.
Perché si tratta solo di questo, di abituarsi.
E ci si riesce, con tutto, anche se all'inizio fa davvero male.
Ma dopotutto è la più grande qualità dell'uomo, la capacità di adattamento, se non la si ha, si è destinati alla morte prima del tempo.
Sarebbe splendido se la mia teoria valesse anche per il mio passato, adattarmi ad esso...
Ci riuscirò però, devo crederci.
Lo devo a me stessa e lo devo a Fred.

Sto osservando gli scaffali in vetro dell'ufficio quando sento qualcuno bussare alla porta.
Mi spavento e mi volto.
È una ragazza.
«Disturbo?», domanda, dubbiosa.
Non dimostra neanche trent'anni ed immagino il motivo per il quale Fred l'abbia mandata da me, per mettermi a mio agio.
Faccio segno di no con la testa e lei si chiude la porta alle spalle.
Rimango immobile al mio posto, mentre lei mi si avvicina.
«Ciao, io sono Vanessa Gelli», mi sorride e gli occhi cervini le si illuminano, nonostante siano nascosti da due lenti dalla montatura moderna e nera.
Il fatto che mi abbia salutata con un ciao mi fa sentire a mio agio e le sorrido a mia volta.
«Golden, vero?», domanda.
Annuisco.
«Per questo mattino non ho nessuna mansione da svolgere, che ne dici di un bel giro per l'edificio?», propone, avvicinandosi ancora.
Stringe una cartellina tra le mani, come se fosse l'oggetto a darle la forza per parlare.
Si accorge che sono titubante.
«O meglio, sono obbligata ad accompagnarti, non che non mi faccia piacere, ma credo che se tu non accettassi... insomma, a nessuno farebbe piacere», non credevo potesse sentirsi in imbarazzo.
O forse avevo dimenticato questo aspetto di me.
Ho sempre messo in imbarazzo le persone, il mio aspetto precedeva le mie parole, e qualsiasi cosa io avessi detto gli altri avrebbero ricordato soltanto le mie gambe, i miei occhi o il mio modo di sedermi.
A tutti sarebbe saltata all'occhio la mia aria di chi sta sulle proprie, ma a nessuno sarebbe rimasta la stessa angoscia che io sentivo dentro.
La stessa che provo anche adesso.
«Allora?», domanda, come stremata dal tentativo di essere sicura.
Immagino che non rivesta un ruolo che la mette a contatto con le persone ventiquattro ore su ventiquattro.
Non mi sembra il tipo adatto per convincere eventuali clienti...
Forse si occupa della grafica, o dell'organizzazione delle informazioni, o di qualsiasi altra cosa da svolgersi in solitudine.
«Andiamo», rispondo, come se fosse ovvio.
Aggiro il divano e insieme ci avviamo all'uscita.
Mi precede.

«Lavoro qui da più di cinque anni, e non credo potrei trovarmi meglio, in nessun altro posto», mi informa, dirigendosi verso l'ascensore.
Annuisco, come se sapessi di cosa sta parlando, ma forse posso immaginarlo.
Se è Fred a dirigere questo posto il clima non può essere molto diverso da quello che respiro io a casa sua.
Vanessa da uno sguardo al suo riflesso nello specchio dell'ascensore e poi torna ad osservarmi.
È parecchi centimetri più bassa di me, nonostante i tacchi, e la cosa non sembra metterla a suo agio
Mi dispiace, mi dispiace per l'impressione che le faccio.
Per il viso sofferente e trasognante che mi ritrovo, per l'atteggiamento estraneo che ho, per gli occhi che non hanno il coraggio di soffermarsi accanto ai suoi e per le labbra che non riescono più a sorridere facilmente.
Mi dispiace per il suo disagio.
L'ascensore si apre e ci lascia uscire.
Siamo in un corridoio bianco, pieno di porte, nessun abbellimento alle pareti, se non la pallida vernice.
«Questo è il piano del direttore finanziario, non è molto interessante, ma la vista che si ha da qui non è niente male...», spiega, mentre si dirige verso una porta finestra in fondo al corridoio.
La seguo all'esterno e mi ritrovo d'accordo con lei.
Da qui si vede una parte di giardino che non avevo mai avuto l'occasione di notare.
C'è persino una fontana enorme a forma di decagono, con uno stantuffo al centro gigantesco, alto almeno quattro metri.
«Avevi ragione», dico, non riuscendo ad aggiungere altro, ed ancora una volta mi dispiace.
Mi dispiace per non essere la compagnia perfetta.
Vanessa annuisce e poi si appoggia alla balaustra di vetro.
Piega leggermente il busto in avanti, si sporge per osservare qualcosa, una panchina, suppongo, e poi si tira indietro, si volta e si appoggia con la schiena alla balaustra, pronta a parlare di nuovo.
«Era da settimane, forse mesi, che non venivo quassù...».
«Come mai?».
«Non avevo più un motivo per farlo...», torna a guardare la panchina, dandomi le spalle.
Mi tengo un passo indietro.
«Non che prima lo avessi... O meglio, credevo fosse più importante di quello che invece si è dimostrato essere», dice, la voce lontana, come lo è lei.
«Ma è così che è, non credi?», non si volta, fissa determinata quella panchina, e so che c'è qualcosa che non dice, e so che ci sarà sempre.
«Cosa?».
«La nostra incapacità di comprendere il presente prima che questo sia diventato passato», volta la testa verso di me, mi guarda di sfuggita e poi fa volteggiare lo sguardo sugli zampilli dell'acqua.
«Ed a volte neanche quando è passato riusciamo a comprenderlo», le sue parole sono le mie parole.
Hanno un odore, hanno un suono, hanno un colore, sono qualcosa, qualcosa che si riconosce con qualcos'altro dentro di me.
Mi avvicino a lei, poggio anche io i gomiti sulla balaustra in vetro.
«Ora è ancora giorno, e sembra scontato dirlo, ma questo posto è spettacolare, specialmente all'alba», continua a parlare, dimostrandomi che quanto avevo creduto di lei era sbagliato.
Non è timida, riservata forse, non vuole sapere nulla da me, ma ha bisogno di essere ascoltata.
Ha bisogno di essere capita.
E forse, ancora una volta, io non sono la persona giusta.
Inspira e si tira indietro.
«Che ne dici di continuare il nostro giro turistico?», le sorrido e annuisco.
Mi mostra tutto lo stabile, ed io rimango stupita dalla sua camuffata grandezza.
C'è persino una palestra ed una piscina, oltre al più tradizionale bar e ristorante per le pause pranzo dei dipendenti.
Per le dodici siamo tornate in ufficio.
C'è Fred dentro, e anche Christian.
«Oh, vedo che siete tornate», osserva Fred, quando Vanessa mi segue all'interno della stanza.
«Stavamo per andare a pranzare, vi unite a noi?», domanda ancora.
Vanessa sorride ed accetta.
«Se non le sono d'impiccio», aggiunge.
«Non scherzi! Golden, hai conosciuto la nostra direttrice pubblicitaria», afferma Fred, venendomi accanto.
Annuisco.
«Hai fatto un'ottima scelta, Christian, a mandare lei».
Christian?
Credevo fosse stato Fred a dire a Vanessa di accompagnarmi questa mattina...
Christian...
Perché avrebbe dovuto interessargli?
Non riesco a fermarmi in tempo, così mi volto verso di lui, stupita, e lo trovo a fissarmi.
Abbasso subito lo sguardo e torno a guardare il pavimento, e le scarpe nere e lucide di Vanessa.
«Allora? Che facciamo ancora qui? Non dovevamo pranzare?», pronuncia Fred.

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E piano piano arriva il sole a sciogliere la neve, speriamo duri a lungo😏😊
Intanto vi mando ben 1310 baci dreamers e vi auguro un buon lunedì😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘😘

GOLDEN-quella sera le nuvole trattennero le lacrime.         WATTYS2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora