Unfair tripping: Parte uno (AMABEL)

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Il continuo bussare alla porta per dirmi di uscire non avrà l'effetto sperato da mia zia.

"Amabel Diana Sophie Hudson! Se non esci subito dalla tua camera, niente cena per una settimana intera! Sono la padrona di casa, non la tua governante!" con aria disinteressata mimo le stesse parole in contemporanea: quella frase è ormai divenuta un segno riconoscitivo di mia zia "Anche se sei mia nipote, questo vale anche per te, signorina... Amabel... non puoi restare chiusa li dentro... Sherlock è venuto per chiederti una cosa!"

Per tutta risposta ridacchio silenziosamente in modo strafottente: è la più stupida ed ovvia delle balle che abbia mai ascoltato da lei; le avrei creduto di più se mi avesse detto che Sherlock avesse trovato un modo per sfondare con la vendita di dolcetti a forma di occhio umano, sostituendone il corpo vitreo con gelatina commestibile al gusto di fragola.

Zia Martha bussa un altro paio di volte, dopodiché sento il rumore dei suoi passi allontanarsi insieme ad un brusio in sottofondo.

È dalla sera precedente che non varco la soglia della mia camera, unica eccezione costituita solo dalla necessità di usare il bagno; non mi muovo neppure per mangiare, tanto che zia Martha è puntualmente costretta a portarmi del cibo sul letto, talvolta me lo lascia davanti alla porta quando mi chiudo a chiave come in questo caso.

Ad ogni modo il cibo rimane intatto nel piatto. 

La mia assoluta concentrazione è puntata sempre e solo verso i fogli che sono sparsi in pratica dappertutto, inoltre, a causa dell'inchiostro della penna che ho sui polpastrelli ho accidentalmente macchiato le lenzuola candide del letto su cui sono sdraiata; sinceramente non mi importa affatto, continuo a scrivere le stesse cose numerose volte fino a quando non sono costretta a sbattere le palpebre per via delle macchie sfuocate che si sovrappongo alla mia pupilla, impedendomi una vista nitida.

Mi mordo il labbro inferiore, inclinando il capo verso destra, quando finisco getto la penna verso i piedi del letto ed osservo il risultato del mio lavoro: una moltitudine di numeri, lettere, parole di per sé senza senso, disegni di chiavi... il caos.

Faccio scivolare il disegno verso gli altri a terra e mi giro supina sul materasso, lascio ricadere lateralmente la mano sinistra urtando per sbaglio la siringa semi vuota appoggiata all'interno di un piattino, accompagnando il tutto con un sospiro svogliato; mi volto a guardare velocemente l'oggetto che il mio corpo richiama a gran voce, con un balzo mi posiziono a cavalcioni sulle gambe e sollevo la manica del braccio destro, dopo aver legato un laccio emostatico afferro la siringa e con estrema lentezza infilo l'ago attraverso la pelle, trattenendo il fiato.

Socchiudo gli occhi e le labbra mentre con il pollice spingo il liquido all'interno del mio corpo.

Mi lascio ricadere, infine, con la schiena a peso morto, fissando distrattamente il soffitto.

Le sostanze stupefacenti sono l'unico rifugio in cui posso gettare tutte le mie più profonde paure generate dall'esperienza orribile che ho vissuto e che mi perseguita ogni notte, nei miei incubi: mi ritrovo sempre in quella dannata stanza buia, in sottofondo c'è un forte scroscio d'acqua simile a quello di una cascata, dopodiché, quasi in contemporanea, appare una Londra in pieno giorno tra i cui palazzi spicca un edificio che non riesco a riconoscere; poi avverto una dolorosissima fitta simile ad un coltello piantato nel petto, poi ancora un urlo, infine tutto sfuma fino a che non mi sveglio ritrovandomi l'intero corpo madido di sudore ed il battito cardiaco irregolare.

Ho il terrore di chiudere gli occhi per trovarmi di fronte alla stessa scena; tutte le notti.

Rivolgo di nuovo l'attenzione verso la porta, ore dopo, solo quando sento degli strani rumori, tra cui le voci di mia zia ed altre persone, provenienti dal corridoio principale. 

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