The game's afoot: Parte tre

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Socchiudo lentamente le palpebre appesantite, impiego con altrettanta lentezza e fatica diversi minuti per mettere a fuoco le pareti della stanza in cui mi trovo, ma è il rumore costante e sempre più distinto a ricordarmi di essere disteso su un letto dell'ospedale finanziato da Smith dove sono state ricoverate a seguito dell'orrore accaduto in obitorio e che mi sforzo di dimenticare da quando l'ho rammemorato, per quanto possibile, perché il dolore fisico è diminuito ma non sparito.

Mai quanto psicologico, però, che al contrario è letteralmente frantumato come un fragile bicchiere di cristallo caduto sul pavimento.

Nonostante tutto ciò che è successo metta in tavola carte che dicono che l'incontro con Faith sia stato una semplice allucinazione causatami dalla droga, questo non può essere certo confermare che mi sbaglio su Smith; d'accordo: potrò anche non aver mai conosciuto sua figlia, almeno fino a qualche ora fa, ma ciò che non fa in automatico di me un bugiardo a trecentosessanta gradinta.

Ma come dimostrarlo?

Questo è il punto.

Le mie iridi si abbassano lentamente su Culverton Smith, comodamente seduto su una sedia, alla sinistra dei piedi del letto, a fissarmi con il suo sorrisetto rivoltante appena accennato: l'atmosfera soffusa allude ad una delle tante scene che si vedono nella maggioranza del film horror, ma solo alcune sanno catturarti senza lasciarti più andare.

Tra noi due è lui a rompere per primo il sottile silenzio.

"Ben svegliato, finalmente. Sai, ti ho osservato per tutto questo tempo ed è stato bello, lo ammetto. Fai con calma, va tutto bene. Non c'è alcuna fretta. Sei Sherlock Holmes"

"C... come ha fatto... ad entrare?" domando, quel tanto che le forze mi permettono; lui abbozza un sorrisetto, alzandosi dalla sedia e avvicinandomi a me, inarcando un sopracciglio.

"Con il poliziotto dietro la porta? Andiamo, Sherlock, non lo hai indovinato?"

Certo che l'ho indovinerò.

"C'è... una porta segreta..."

"Bravo. Ho costruito io quest'ala dell'ospedale. Ho licenziato un architetto dopo l'altro, così nessuno a parte me può conoscerne l'esatta planimetria. Questo significa che posso entrare e uscire da dove voglio, quando ho l'impulso di..."

"Henry Howard Holmes"

"Esatto. Il mio castello degli omicidi. Ma voglio farti una domanda: perché sei venuto nella mia tana e ti sei sdraiato davanti a me?"

"Sa bene perché sono qui..."

"Voglio sentirtelo dire. Avanti. Dimmelo"

Vuole sentire da me la risposta? È quello che avrà, allora.

"Voglio che lei mi uccida" sussurro senza la più piccola traccia di preoccupazione nella voce, l'espressione sul viso di Smith, invece, appare quasi perplessa dalla richiesta che ho appena fatto: probabilmente questa è la prima volta che si trova davanti ad una sua futura vittima che la domanda di porre fine alla propria vita; ciononostante gli indico come farlo: con l'aumento del flebo di quattro o cinque volte, lo shock che seguirà mi spegnerà entro un'ora"

Senza la minima esitazione e con un sorriso compiaciuto sulle labbra, lui passa all'altro lato del letto ed esegue alla lettera l'istruzione folle che l'ho appena dato: mi sono messo appena nelle mani di un serial killer per compiere quel passo che mi separa dall'inferno.

"Non si preoccupa: rimetterò apposto i dosaggi. Tutti penseranno ad un guasto o che ti abbia solo tirato l'ecuoia"

"Si..."

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