SECONDA PARTE. The game's afoot: Parte uno

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A che serve questo circolo vizioso di dolore, violenza e paura?

Deve avere uno scopo, altrimenti il nostro universo sarebbe governato dal caso, il che è impensabile.

Ma a quale scopo?

Questo è l'immenso, perpetuo interrogativo al quale la mente umana è ancora ben lungi dal trovare la risposta.

Chiudo gli occhi, trattenendo il respiro, quando avverto finalmente l'effetto della sostanza attraversare il mio corpo fino al cervello, regalandomi una sensazione di benessere; deglutisco, socchiudendo la bocca, lasciando la presa sulla siringa vuota all'interno del piattino di porcellana (lo stesso dove Amabel metteva i biscotti allo zenzero che mi portava) sopra il tavolino e riverso la testa all'indietro, appoggiando la nuca sullo schienale della mia poltrona.

Non esco di casa né parlo più con nessuno da mesi, ormai, in realtà non ricordo neppure quanti ne sono trascorsi: forse due, tre...

A parte la signora Hudson al piano di sotto, sono tornato a vivere nella solitudine del mio appartamento, diventato più una sorta di tuburio; l'unico mio contatto esterno è rappresentato da Wiggins che alloggia per un periodo con me al 221b.

Zefiro non l'ho più visto da quel giorno, credo ora viva a casa di John e Mary; questo non lascia dubbi sul fatto che la mia faccia è l'ultima che vuole vedere, secondo anche quanto riferitomi da Watson durante l'ultima conversazione che abbiamo avuto, benché non ricordo con esattezza quando c'è stata né com'è finita e né perché ho acconsentito a parlare con lui, visto che non voglio averci a che fare dopo la pugnalata che mi ha deliberatamente inferto alle spalle.

Ho solo un enorme vuoto in testa da cui riaffiorano spesso pezzi disordinati di vari eventi accaduti, ma quello che continua a martellarmi maggiormente è il rumore di quello sparo: ogni volta che mi corico (per quel che riesco, praticamente una mezz'ora, massimo un'ora a notte, sulla poltrona, senza nemmeno la forza né la voglia di raggiungere il letto) davanti agli occhi si disegna l'immagine vivida del buco nero della pistola.

Poco dopo, il colpo, seguito da una scia fielvole di fumo grigiastro.

Poi, il silenzio assoluto.

Né John, Mary, la signora Hudson, mi ritengono responsabile della morte di Amabel, ad eccezione di Zefiro e di me stesso.

Non sto mantenendo la promessa fatta ad Amabel perché non ne sono in grado ed i risultati si stanno vedendo con la strada che ho volontariamente deciso di intraprendere e che mi sta facendo sprofondare sempre più velocemente verso le porte dell'inferno.

È come un'anestesia: una volta che ci si sveglia, il dolore riprende possesso del corpo fisico e della mente fino a farli marcire.

Quindi che senso ha rimanere nella lucidità umana?

Con una brusca spinta mi alzo dalla poltrona, avvicinandomi al ripiano del caminetto dove ho infilzato con lo stiletto la piccola busta di carta contenente il cellulare di Amabel, come faccio quando ho faccende rimaste in sospeso; osservo la busta per qualche minuto, mordendomi e inumidendomi le labbra.

Mi volto alle mie spalle solo quando sento il cigolio della porta.

"Sherlock, hanno suonato il campanello di sotto. Non l'ha sentito?" mormora fievole la signora Hudson, restando a metà oltre la porta; al mugugno e la fugace occhiata di sufficienza da parte mia mentre mi allontano verso la finestra, scostando la tendina per guardare l'esterno notturno e piovoso, odo i suoi passi avanzare e la sua voce farsi maggiormente incrinata ed insicura "Come si sente, Sherlock? Non ha affatto un bell'aspetto: da quanto tempo non si fa una doccia? Faccio entrare la cliente o preferisce di no? Per mio consiglio le direi di riposarsi o prima o poi finirà per avere un collasso..."

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