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Altea

Ci dirigiamo entrambi verso l'auto parcheggiata davanti all'ingresso della palestra, mi guardo intorno: le strade sono deserte, i lampioni illuminano a stento ed io sento il gelo attraversarmi la pelle fino ad entrare nelle ossa. Mi rifugio nel cappotto che indosso mentre Jordan dietro di me cammina con passo sicuro, come se non avesse timore della notte cupa, come se fosse anche lui privo di qualsiasi luce. «Prego accomodati nella mia lussuosa auto, spero possa essere nelle tue grazie» mi prende in giro.
Cerco di non rispondere alla provocazione e mi focalizzo sul profumo presente nell'abitacolo. La flagranza è quella dei gerani, conosco il profumo dei fiori preferiti di mia madre. Salgo in auto, fiduciosa. Il giocattolo presente sul cruscotto attira l'attenzione: una bambola.
Potrebbe avere una bambina da una precedente relazione.
«Appartiene ad Isabel, mia nipote» annuisco con il capo e cerco di pensare a qualcos'altro che non appartenga a lui. È inevitabile essendo nella sua vettura, con lui al mio fianco, proprio a pochi centimetri da me. Posiziona la mano sinistra sul cambio, la mano destra sul volante, il gomito forma perfettamente un angolo piatto. L'orologio bianco risalta la carnagione scura, le mani ricoperte di tatuaggi sono la cosa più eccitante che abbia mai visto. La felpa aderisce perfettamente alle spalle mentre scende ampia sull'addome, i capelli sono raccolti con un elastico e le treccine pendenti, come sempre, ai lati della fronte. Gli occhi sono puntati sull'asfalto, la luce che penetra dal vetro spesso, riesce a farmi notare perfettamente la forma a mandorla e il colore scuro. Sono marroni, di un marrone quasi banale, se non fosse per le piccole pagliuzze di verde che sfumano verso l'interno.
«Non fissarmi» accenna un piccolo sorriso.
«Sei troppo sfacciato» sistemo lo zaino sulle gambe. Mi sento a disagio sotto il suo sguardo curioso. Mi fissa come se fossi una bambola di porcellana in un negozio di giocattoli, scruta ogni crepa e ogni fessura scoperta. Jordan non comprerebbe mai un gioco che non vuole nessuno. Lui è abituato alle cose nuove, alle ventate d'aria fresca e non al caldo afoso del deserto. Perché io mi sento sempre così: prevedibile, monotona. Cosa potresti aspettarti nel Sahara? Non una tempesta di pioggia.
«Sei strana Curatrice» il cuore batte veloce nel torace nel momento in cui recepisco il nomignolo. Altea significa colei che cura e guarisce, mia madre scelse questo nome per le circostanze in cui sono nata. Mio padre acconsentì solo perché credeva che la mia nascita potesse rivelare speranza per quel matrimonio che stava già cadendo a pezzi.
«Sei troppo sicuro di te» sostengo.
«Perché conosco i tuoi punti deboli» gratta il mento, pronto a sganciare la bomba.
«Ho fatto delle ricerche, non è stato difficile trovare informazioni nella tua cartella clinica» spiega calmo.
«Sei una paziente dalla Dott. Jocelyn Cooper, psicologa e educatrice infantile. Ti prescrive psicofarmaci, che prendi tutte le mattine prima di uscire di casa. Ti svegli molto presto perchè la notte gli incubi ti fanno visita. In parole semplici sei una maniaca del controllo intrappolata in una bolla di false realtà» dice.
Giudica e colpisce, dritto allo sterno.
Nessuno mi aveva parlato in questo modo così rude e veritiero, mi rannicchio sul sedile. Vorrei difendermi ma l'unico scopo è scendere dell'auto, percepisco il terrore perforarmi la pelle.
«Fammi scendere» sussurro. Cerco di aprire la portiera ma è bloccata dall'interno.
Sono in gabbia, respiro a fatica.
Come ha fatto? Mi ha spiata per tutto questo tempo?
«Per favore, ti prego fammi scendere» supplico come non ho mai fatto prima. L'auto si ferma e siedo sul margine della strada. Le mani a coppa sulle orecchie e lo sguardo fisso nel buio, ho paura. L'artefice si presenta davanti al viso con sguardo essoterico.
Nessuna emozione è presente su di esso.
«Alzati» ordina.
«Vattene!» urlo fra i singhiozzi.
«Ti ho detto alzati!» sbraita, le mie gambe non vogliono obbedire. «Ho detto vattene, lasciami in pace Jordan» acconsente, senza dire ulteriori parole. Si allontana così tanto che non riesco più a vedere il tragitto che compie. Sono sola in un quartiere che non conosco e che non sembra minimamente il mio. Rilasso il corpo e respiro profondamente, omettendo i pensieri negativi. Mi alzo e percorro la strada davanti a me senza guardare indietro, le case sono malridotte e i giardini poco curati. Tocco l'orologio sul polso e decido di sfilarmelo, ripongo tutto in tasca.

La maggior parte delle parole crudeli emesse sono vere, mi sono nascosta in una sfera di cristallo. Ho concesso agli altri il lusso di distruggermi, ho permesso a me stessa di non avere rapporti sociali al di fuori di mio padre e della mia domestica. Per anni ho mostrato agli altri ciò che non ero, ho indossato maschere diverse ogni giorno della mia vita. A scuola cedevo alle offese, a casa mentivo sui fatti accaduti solo per non mostrarmi debole. Tutti sapevano i motivi che mi facessero perdere il senno, mia madre è uno di questi. È stata esemplare finché la pazzia non è entrata a far parte della sua vita e della nostra. Vederla abbandonarsi all'alcool non è stata una delle cose più semplici del mondo, soprattutto a dodici anni, quando l'unica cosa di cui dovevo preoccuparmi era quante gomme da masticare riuscivo ad infilarmi in bocca. Cercava conflitti con chiunque le si avvicinasse, giorni interi restava a letto e in altri sembrava quasi normale. Sussurrava parole sconnesse tra loro, beveva come se fosse l'unica via d'uscita. Le sono stata accanto finché ho potuto, finché non ho visto il corpo inerme sospeso sul soffitto.
Mi sono affidata alla scrittura e poi ad un esperto.
Una moto si dirige verso di me, accostando. L'uomo che guida non ha più di trent'anni, cerca di persuadermi ma lo rifiuto con disprezzo. «Dai zuccherino non farti pregare» dice, avrei preferito sicuramente restare con il pugile. Nego freneticamente con il capo, vengo afferrata con il polso e nemmeno il tempo di controllare chi mi abbia salvato, che il ragazzo è steso sull'asfalto.
«Dios Mío, sei carne fresca qui» grida inferocito, ogni mio pensiero tace. Resto in silenzio, ammutolita.
«Solo Dio sa cosa sarebbe successo se non ci avessi ripensato, se non fossi arrivato in tempo» cammina verso l'auto.
«Sali, adesso» ordina di nuovo.
Questa volta obbedisco, troppo spaventata e terrorizzata.
Il tragitto in auto è silenzioso, nessuno dei due inferisce con i pensieri dell'altro. Arriviamo davanti casa più velocemente di quanto mi aspettassi, accosta e va via. 

#spazioautrice
Ciao a tutti.
Ho aggiornato con un giorno di ritardo,scusate ma ho avuto così tante cose da fare negli ultimi giorni.😅
Vi lascio al prossimo capitolo.
Un bacio,Fatima.♥️

The Boxer's Clan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora