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Nessun luogo è così brutto,
come il più bello,
in compagnia della persona sbagliata.

Altea

''Sono belle le giostre, no?''
No, assolutamente no.
La testa capovolta e la bocca spalancata, grido. L'adrenalina penetra nelle ossa, la bile spinge dallo stomaco all'esofago. Tappo il naso e stringo le spalle, la cintura munita di bretelle schiaccia sul torace. Con le gambe penzolanti, tengo stretto il cellulare e la collanina. L'indice di Lowell sfiora il ginocchio, il profumo dei vestiti giunge al mio cervello: dolce e gradevole.
«Lo giuro, questa è l'ultima!» strilla, la fronte rossa per lo sforzo. Cerca di appiattire i riccioli, li tira indietro. Acconsento, il sorriso m'acceca. È bello, molto bello.
«Ultimo giro!» parla lo speaker, sento alcuni versi d'apprezzamento.
Finalmente, vorrei rispondere.
Il meccanismo rotea, prima verso destra poi a sinistra. Urto il gomito sulla testa del biondo, emette parole incomprensibili. Una spina sulla lingua avrebbe fatto meno male. Approdo sulla terra ferma, la testa vortica e rabbrividisco, le gambe tremano. Sono visibilmente scossa, vorrei rigurgitare in qualche angolo remoto di questo posto. Lowell abbranca l'avambraccio e s'intrufola nella folla. I ragazzi mi spingono, il giacchetto di jeans struscia sugli altri corpi. Percepisco lo sguardo di tutti addosso, il terreno è diventato magicamente più interessante del cielo. Sfrego il petto più volte con il pollice, ingoio il groppo in gola. Interrompo il contatto, strattono forte il braccio. Prego di non essere toccata, recepisce il messaggio e acconsente.
«Un bastoncino di zucchero filato, per favore» dice all'uomo. Mi concedo qualche secondo per osservare bene il vestiario del mio accompagnatore: il giacchetto beige richiama il colore delle scarpe, i cargo larghi sui fianchi e la maglietta bianca, da cui si intravedono gli addominali. Le fossette sulle guance e le luci colorate, che influiscono sulle iridi ghiacciate.
Scuote la testa al commerciante e ride.
«Prego!» mi porge l'asta colorata.
«Vieni, prendiamo un peluche!» cammina come un granchio verso lo stand. Il batuffolo rosa copre l'intera faccia, fissa l'anellino a forma di farfalla. Il senso di colpa mi divora, avvampa negli organi. Sono quattro giorni che fisso il cellulare come un'ossessa, nella speranza che possa apparire un suo messaggio. Nessuna chiamata, nessun cenno di vita. Ho controllato più volte i profili social, l'ultimo post risale al ventuno novembre 2018. Jordan è sparito nel nulla come una nuvola di fumo, si è dissolto nell'aria. Ho sentito qualcosa riguardo un grande attacco, simile a quello della festa. Elide non ha più parlato ed io lo stesso, il biondo si è mostrato cinico alla faccenda. È successo tutto così in fretta. La visione che mi ero fatta di Adriel, si è sciolta come neve al sole.
«Quale ti piace?» chiede, indico una tartaruga. Impugna la pistola con maestria, poggia l'indice sul grilletto e la sinistra sul polso destro. Scaraventa giù tutte le lattine, dieci su dieci.
«Sei davvero bravo!» parlo piano, abbranco l'animaletto e lo tengo per la zampa.
«Ti ringrazio...» le gote si colorano di rosso.
«Non guardarmi in questo modo!» accusa, dondola sui talloni per spingermi. E ci riesce, vocillo per alcuni secondi. Aggrotto le sopracciglia, arriccio le labbra ed il naso.
«Scusami...in quale modo?» mordicchio la guancia, agitata.
«Così!» sporge il labbro inferiore e batte le ciglia lunghe. Resto interdetta, ridacchio per evitare l'imbarazzo.
«Io non faccio così!» soffio.
I bambini procedono velocemente verso le seggiole gialle, batto i denti. Lowell sfila con fluidità il giubbotto e l'appoggia sulle mie spalle. Il freddo di Dicembre comincia ad addentrarsi nelle carne.
«Vuoi?» strappa un pezzetto di saccarosio. Nego, roteo il capo verso la casa del riflesso.
«Okkayy, come vuoi...» cantilena.
«Hai sempre vissuto qui?» siede su una panchetta, faccio lo stesso. Annuisco animosamente. A differenza di altri, io non odio TysonVille. Questo posto mi ha aiutato a crescere, a comprendere i problemi reali. Non la manicure fatta male, le scarpe sporche di fango e gli abiti di qualche taglia in più, ma la morte. La sofferenza e la gioia delle piccole cose.
«Tu? Hai sempre vissuto in Italia?» gioco con i polpastrelli, schiaccio i sassolini con le punte. Si gratta il braccio candido, la pelle non è marchiata da nessun tipo di disegno. Mi ritrovo a paragonarli, di nuovo. Jay è testardo, diretto, forte. Il biondo è l'opposto: spontaneo, estroverso, sorridente.
«Sono nato qui anch'io, mi sono trasferito per studiare. Lì il tempo è sempre sereno e la pizza molto buona...» chiude le palpebre per rivivere i sapori e le sensazioni. Lo stomaco brontola, il mio rinnega la proposta. Non di nuovo, non con lui. Si alza di scatto, tende la mano verso la mia. L'afferra con dolcezza e si dirige verso un locale al centro del parco, l'insegna illumina ogni cosa. Le sedie rosse, i tavoli bianchi e il bancone nero a quadri. Magliettine anni80 ornano le pareti, Nate avrebbe adorato questo posto. All'interno ci sono ragazzi di tutte le età, riconosco alcune felpe della High School che frequentavo. Prendo posto accanto alla finestra, un tavolo distante dai presenti. Lowell consulta il menù, cerca il mio sguardo. Vorrei sgattaiolare, lasciare tutto e andare via.
«Cosa vuoi mangiare?» invoca la mia voce.
«Qualcosa di leggero...» niente sarebbe meglio.
La dipendente ridacchia, le rughette ai lati del naso e il rossetto ad evidenziare le labbra grosse. Mastica voracemente una gomma americana, così forte da far intravedere la gola profonda. Il senso di nausea batte nella trachea, fisso la lingua rotolare sulla materia elastica. Respiro profondamente, cerco di scandire i numeri sulla tovaglia. Vorrei concentrarmi solo su questi, ma l'odore ripugnante di cibo mi ha già impregnato gli abiti.
Questa è la goccia.
Il vaso cede.
A piccoli pezzi.
Non incontro le pozze, non ho il coraggio di guardare occhi che non sono i suoi. Sussurro qualcosa d'impercettibile e drizzo in piedi.
Sarai sempre malata, una pazza malata proprio come me.
La voce di mia madre si diffonde nella testa, cattiva e prepotente. Il cuore batte all'impazzata, il sudore comincia ad impregnare la fronte.
Sto per morire, sto morendo.
Emetto alcuni guaiti come un animale, le ferite si riaprono.
Il sangue sgorga in pezzi, ricopre le piastrelle del bagno. La mamma sospesa, la corda stretta al collo e gli occhi fuori dalle orbite. Il terrore, le urla e la mancanza di lacrime. Prosciugata dai miei stessi sentimenti. I demoni stanno arrivando, vengono a prendermi. La porta del locale batte contro il muro, spingo alcune ragazze. Ferma nel piazzale. Urlo con tutto il fiato, a pieni polmoni.
Grido il dolore, l'amarezza e la disperazione.
Afferro di fretta il cellulare dalla tasca e pigio il primo contatto, nel frattempo un singhiozzo scuote la gabbia toracica. Lacrime salate solcano le guance. Squilla ininterrottamente, due, tre volte. Finalmente torno a soffiare.
Una boccata d'aria fresca.
«Curatrice...» dice, frigno come una bambina. Il tono lento e pacato, la voce bassa. Il canto del Diavolo per molti, ma quello degli Angeli per me.
«J-ay v-ien-i qu-i» tento di formulare una frase di senso compiuto. Un suono sordo penetra l'udito, poi finalmente reagisce.
«Dimmi dove sei! Dio...Los mataré a todos!» sbraita.
«I-l parc-egg-io al L-una Pa-rk ma...» non termino la frase, ha già interrotto la comunicazione.

Indugio sui movimenti, asciugo gli occhietti e tiro con forza alcune ciocche di capelli. Sprofondo sul cemento, le natiche coperte dai pantaloncini. Il peso ha oppresso nel momento in cui ho oltrepassato l'uscio di casa. All'uscita non ho sentito la protezione e il calore delle braccia forti, non ho scorto il ghigno malefico e il cerchietto al naso. Il mio nome viene pronunciato più volte, finché un paio di sneakers occupano lo spazio ridotto. China il capo e morde il muso gonfio, lambisce i capelli.
«Vuoi dirmi cosa è successo lì dentro?» pretende delle risposte, scuoto la testa. Tenta di trovare un posto, ma scosto le gambe. Non può sedersi accanto a me, non adesso. Resta in silenzio per alcuni minuti, cinque forse.
«Posso aiutarti...parlane Altea, ti farà bene» supplica.
«Non puoi aiutarmi...» proferisco, il nodo piantato in gola.
«Nessuno può farlo» recito.

«Altea!» 
«Thea dove sei?» 
«Por favor! Rispondimi...Porca puttana!» abbaia a pochi centimetri. Schizzo fuori, vorrei correre ma vengo arrestata dalla gamba del ricciolo.
«Non andare, lui è Lucifero» asserisce. Corruggo la parte superiore della faccia, il pianto secco impedisce qualsiasi espressione.
Cosa sta dicendo?
«È il Re degli Inferi» ribadisce un concetto che conosco da tempo. Tolgo la giacca e la depongo di fianco all'erba, rivolgo le pagliuzze al pugile in piedi accanto all'auto. Analizza ogni centimetro del piazzale, la mascella tesa e lo sguardo truce.
Cerca la mia figura fra i veicoli.
«Ti sbagli, lui è il Salvatore» rispondo.
Procedo verso l'uomo, volto di spalle. Avanzo velocemente, scatto in avanti e circondo i reni con le braccia esili. Affondo il naso nel maglione, ha addosso una fragranza pungente e balsamica. Mi lascio andare completamente. Allaccia le falangi attorno ai polsi, rotea il corpo e s'abbassa di poco. Il nocciolo nel petto pompa voracemente, dedicato solo a me. Non sono perfetta, ma con te lo divento. Non ho bisogno di parlare, distruggi incertezze con le carezze.
«Curatrice...»
E sei tu ad aver salvato me.
Dal primo istante.
«Andiamo via» bacia le scapole con gracilità.
Io sono già, a casa. 

#spazioautrice
Buona Domenica a tutte!
Gli aggiornamenti della domenica mi rendono sempre più felice del solito, vi giuro. In questo capitolo ho pianto tanto, il dolore di Altea l'ho sentito fin dentro le ossa.
A voi piace Lowell? 
Nel prossimo ne vedremo delle belle...

The Boxer's Clan.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora