39. La festa del ringraziamento

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Un silenzio assordante riempiva le pareti di camera mia, illuminata appena dalle luci esterne. Avevo la coperta fin sopra alla testa, che scoppiava di dolore a causa di tutte le lacrime che avevo versato in quelle due ore. Sembrava essere davvero finita, tra me e lui.

Di solito, bastava una sfuriata e quattro parole urlate sul viso per riuscire a placare tutto. Era necessario un solo sorriso, un errore grammaticale dovuto alla rabbia o un commento divertente per smorzare il clima litigioso e tornare a fare la pace.

Ma non quella volta.

Quella volta Riley era veramente deciso a lasciarmi andare.

Non lo criticavo e né lo condannavo per la sua scelta, dopotutto, era successo l'inevitabile. Ciò che lui aveva previsto quella sera nel campus, quando alla richiesta di un mio bacio mi chiese perché avremmo dovuto continuare a farci del male.

Non avevo mai ascoltato i suoi segnali, non avevo mai capito le sue tacite suppliche che per mesi aveva tentato di mandarmi, e avevo fatto in modo che accadesse ciò che né io e né lui avremmo potuto evitare.

Era appena l'alba, le luci del giorno stavano cominciando a spuntare timide e il freddo stava cominciando ad insinuarsi dentro le ossa.

E io non riuscivo ancora a dormire.

Forse avrei dovuto prendere una camomilla, cercare di calmare i nervi che non mi permettevano di non riposare bene. O, magari, avrei dovuto mettere in chiaro la mia vita e cercare in tutti i modi di risolvere ciò che non andava.

Il problema principale, però, era che non andavano molte cose. Era tutto andato a puttane da quando avevo proposto a Riley di tenersi sia me che Michelle. E la cosa era peggiorata quando quello stronzo mi aveva messo le sue manacce addosso, per poi continuare dopo la questione della relazione libera e decadere del tutto con il ritorno della merda nella mia festa di compleanno. Come dovevo risolvere i miei casini se ciò implicava dover sradicare il problema della radice? E il problema non partiva dagli altri, ma da me stessa.

C'era qualcosa che non andava in me, dentro la mia testa, la mia persona.

Forse dovevo seriamente andare in terapia, o magari parlare con i miei genitori di quello che mi era successo. Sì, magari avrei parlato con loro. Ma come avrei dovuto aprire il discorso?

"Ehi, mamma e papà. Ho subito una violenza sessuale e sono incinta. Ma non temete, il figlio non è dello stupratore ma di Riley. Come? Non sapevate di me e Riley? È tutto nato come un gioco malsano mentre lui stava con Michelle, poi io sono scappata al primo accenno di sentimento perché sono una codarda del cazzo."

No, non andava affatto bene. Ero un totale fallimento, diamine, e più cercavo di risolvere la mia merda più mi ci affondavo da sola.

Mi accarezzai il ventre, facendo un profondo respiro tremante. Che bell'esempio sarei stata per quella creatura.

«Ehi Jas! Jas, ehi!» mia sorella Joyce sbucò in camera mia, bisbigliando come una criminale. Tirai fuori la testa dal piumone, aggrottando la fronte alla vista della mia sedicenne sorellina tutta imbacuccata con degli abiti completamenti neri.

«Hai deciso di rapinare una banca?» chiesi confusa, mettendomi seduta sul letto.

Mia sorella mi guardò, inclinando il capo di lato e storcendo le labbra. «Ma hai pianto?» poi mosse la mano, come se la cosa non la riguardasse affatto. «Mi serve un super favore.»

Assottigliai lo sguardo, gettandomi di nuovo di peso sul materasso e osservando il soffitto. «Non ho soldi, o per lo meno li ho ma non voglio darteli.» mormorai, mettendomi di fianco per guardarla in viso.

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